Sulle pagine del Corriere della SeraAlberto Alesina e Francesco Giavazzi hanno criticato il Financial Times per un articolo nel quale Monti viene giudicato non adatto a guidare l’Italia in quanto promotore delle politiche di austerità. Lo stesso Monti ha replicato a queste accuse e il Financial Times ha pubblicato un nuovo articolo che offre un punto di vista parzialmente diverso dal precedente. Ma nel frattempo, nel loro commento sul Corriere, Alesina e Giavazzi affermano con stupore che in Europa, persino sulle pagine dell’autorevolissimo giornale inglese, viene prendendo piede una “sciocchezza”, una “stupidaggine” “che non ha riscontri nell’evidenza empirica”. Questa “sciocchezza” è l’idea secondo cui le politiche di austerità frenano l’economia, inasprendo la crisi.

Ma in realtà sono lo stupore e i toni di due economisti del calibro di Alesina e Giavazzi che meravigliano. I due, infatti, sanno perfettamente che vi è una estesissima produzione scientifica internazionale secondo la quale le politiche di austerità tagliano le gambe alla crescita. Queste tesi sono ospitate da riviste scientifiche autorevoli e supportate da una modellistica avanzata, oltre che avvalorate da una tanto massiccia quanto raffinata mole di analisi econometriche (cioè, appunto, di verifiche empiriche). Non solo: stanno guadagnando consensi crescenti semplicemente perché consentono di comprendere meglio ciò che si verifica nel mondo. E infatti, quegli economisti che – come Alesina e Giavazzi – hanno dato credito alla favola dell’“austerità espansiva” hanno spesso finito per prendere sviste imbarazzanti nei loro modelli previsionali.

Secondo la tesi dell’“austerità espansiva”, le politiche di taglio della spesa pubblica alimenterebbero la crescita. Il che significa assumere che i cosiddetti moltiplicatori della politica fiscale siano negativi, e cioè che una politica fiscale restrittiva (quando il prelievo fiscale eccede la spesa pubblica) determini una crescita del Pil. Per arrivare a queste conclusioni si effettuano una serie di ipotesi irrealistiche sul comportamento dei consumatori e degli imprenditori secondo le quali una riduzione della spesa pubblica genererebbe aspettative di calo della pressione fiscale e dei tassi di interesse; e ciò, a sua volta, porterebbe a una revisione dei piani di spesa delle famiglie e delle imprese tale da imprimere un incremento alla spesa per beni di consumo e investimenti produttivi. Da qui l’aumento del Pil. È sulla base di simili congetture che molti economisti e numerosi istituti di ricerca hanno effettuato previsioni di crescita anche in Paesi in cui erano in atto severe politiche di austerità. Prendendo grandi abbagli.

Ed è per questa ragione che il Fondo Monetario Internazionale – prima con l’ultimo World Economic Outlook e poi con un saggio di Olivier Blanchard and Daniel Leigh– ha ammesso la presenza (nelle sue stesse analisi, ma anche in quelle dell’Ocse e della Commissione Europea) di frequenti rilevanti sottostime dei moltiplicatori della politica fiscale e conseguentemente degli effetti depressivi dell’austerità.

Come ha mostrato, ad esempio, il dibattito statunitense sugli effetti del piano da ottocento miliardi di dollari di “stimoli fiscali” voluto da Obama nel 2009 (con l’American Recovery and Reinvestment Act) i moltiplicatori della politica fiscale sono positivi e generalmente ben maggiori di uno. Il che significa che una espansione fiscale di un miliardo di dollari genera un aumento del Pil significativamente superiore a questo importo, contribuendo ad incrementare i livelli occupazionali. E viceversa.

Tutto ciò vale a dire che i modelli previsionali che hanno sottolineato l’influenza positiva della spesa pubblica sulla domanda complessiva e di questa sulla crescita hanno compreso molto meglio la dinamica economica reale. D’altra parte, se le critiche alle politiche di austerità fossero davvero delle “stupidaggini” – come scrivono Alesina e Giavazzi – non si comprenderebbe come mai cinque premi Nobel (Kenneth Arrow, Peter Diamond, William Sharpe, Eric Maskin e Robert Solow) siano intervenuti publicamente contro l’inserimento nella Costituzione del principio del pareggio di bilancio, affermando tra l’altro che i “tagli di spesa e/o gli incrementi della pressione fiscale necessari per raggiungere questo scopo possono danneggiare la ripresa”.

Tornando alle cose di casa nostra, possiamo consolarci con il fatto che una fetta consistente della accademia italiana abbia sentito più volte l’esigenza di uscire dalle aule universitarie per bacchettare la cultura dell’“austerità espansiva”. Ad esempio, chiarendo che le politiche di abbattimento del debito pubblico possono essere fortemente recessive (con l’appello contro l’abbattimento del debito pubblico e a favore della stabilizzazione del rapporto debito/Pil del 2006) e precisando che il quadro restrittivo dei vincoli di Maastricht ha accresciuto la divergenza tra i paesi dell’Unione, mettendo a rischio la tenuta dell’area euro, e complessivamente frena l’economia Europea (con la Lettera degli economisti del 2010).

Purtroppo, però, la politica italiana di questi ultimi anni ha preferito dare ragione al duo Alesina-Giavazzi. Vedremo se sarà ancora così dopo le prossime elezioni.

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