Anche l’Aeronautica militare scende (o sale, vedete voi) a gamba tesa in campagna elettorale e convoca un po’ di giornalisti amici allo stabilimento di Cameri, la lampada di Aladino, l’antro delle meraviglie, dove dovrebbero nascere gli aerei a cui affidare le sue magnifiche sorti e progressive. Lo fa il giorno dopo che Bersani ha scatenato un mezzo putiferio dicendo quello che in tanti, e non solo a sinistra, da tempo pensano: bisogna rivedere la spesa per gli F-35.
Forse la vicinanza dei due eventi è casuale, ma certo non è un caso che la Difesa faccia propaganda all’F-35 in piena campagna elettorale. Una scorrettezza istituzionale grave, ma dal ministero dell’ammiraglio Di Paola non ci si può aspettare granché. Naturalmente manda in passerella non le bombe o i missili (che, si sa, non sono granché glamour) ma fa sfilare gli imprenditori e i posti di lavoro che l’F-35 dovrebbe portare con sé. Ripete, un po’ vergognandosi, la storiella dei diecimila operai, ma nessuno ci crede più. E d’altronde i numeri sono lì, implacabili: alla Vitrociset cinquanta occupati sull’F-35, trenta all’Omi, cinquanta alla Oma, centoventi all’Aerea secondo quanto riporta Giampaolo Cadalanu su La Repubblica.
Coincidenza o meno, la conferenza stampa dell’Aeronautica è la conferma del panico che si è impadronito dei nostri vertici militari dopo le disastrose notizie sul programma F-35. Che non sono solo i serbatoi che possono esplodere, o le fessure sulle ali che hanno messo a terra a metà gennaio tutti i prototipi della versione B (destinata anche alla nostra Marina) o l’annuncio che la Turchia ha posticipato sine die l’ordine per due F-35 già annunciato lo scorso anno o lo stop del Canada al programma. La Difesa in realtà teme la crescente opposizione che sta montando nel Paese contro il programma e che la competizione elettorale potrebbe amplificare.
Perché Bersani non ha detto una cosa di sinistra affermando che bisogna rivedere la spesa per gli F-35. Ha detto una cosa di buonsenso, che naturalmente piace, e molto, a sinistra e a Vendola in particolare, ma trova da tempo consensi anche in aree politiche più moderate.
Per questo, nel silenzio assoluto degli autoproclamatosi “moderati” che tacciono perché nessuno si vuole esporre sostenendo questo programma, mi è francamente incomprensibile il clamore dei “rivoluzionari civili”. Di Pietro, Ingroia, Lotti tutti si sono affrettati a rinfacciare al segretario Pd le precedenti scelte del suo partito. Lo sappiamo, l’ho scritto anche su questo blog, che l’F-35 è stato concepito ed è stato svezzato dai governi Prodi e D’Alema e amorevolmente allevato dai governi di Berlusconi e Monti.
Lo sappiamo che nel Pd di oggi e di ieri la lobby militare-industriale è vivace e ben rappresentata. Oltre a Prodi che lanciò il programma, ci sono Arturo Parisi, l’uomo che sdoganò l’operazione Dal Molin a Vicenza, il senatore Lorenzo Forcieri, il primo che da sottosegretario raccontò alla Camera la frottola dei 10mila posti di lavoro, la genovese “generalessa” Roberta Pinotti. Ma Bersani ha detto una cosa precisa, ed è la prima volta che un segretario del Pd nonché candidato premier si pronuncia in modo così netto e mediaticamente forte sulla necessità di ridimensionare un programma militare. Diamogli credito.
Avrebbe potuto dire cancelliamo gli F-35? Certo, ma nessuno gli avrebbe davvero creduto. Siamo onesti: ha detto l’unica cosa realisticamente possibile perché seriamente ed effettivamente fattibile: riduciamo la spesa, riduciamo il danno. L’unica cosa che può seriamente preoccupare i sostenitori “senza se e senza ma” dell’F-35, che può turbare i ministri-ammiragli e tenere svegli i lobbisti di tutti i colori.
Anziché proposte impraticabili, dovremmo semplicemente chiedere al segretario del Pd una piena accountability rispetto alle sue proposte, che diventi o meno il prossimo presidente del Consiglio. Per il momento, cerchiamo di salvare il soldato Bersani dai crociati della Lockheed e dai profeti di una resa invincibile.