L’infelice battuta di B., “Mussolini fu un leader che, per tanti altri versi aveva fatto bene”, quasi sussurrata al termine di una dichiarazione sulla condanna del razzismo nel giorno della memoria, è significativa. Fa trasparire la nostalgia di fondo per la figura autoritaria, il capo carismatico che gode dell’infallibilità papale (“Mussolini ha sempre ragione”), è al di sopra delle leggi degli uomini ed è in grado di risolvere i problemi del Paese.
L’ex ministro Brunetta, nel difendere il suo leader, tenta un affondo: “è quello che la maggioranza degli italiani pensa di Mussolini”, cade nello stesso errore di attribuire al fascismo il merito della creazione dell’Inps e del modello di welfare. Fu invece il portato di un processo storico inevitabile che il fascismo si trovò a gestire e che aveva le sue radici nelle lotte sociali dell’Ottocento, nelle società di mutuo soccorso, nella Cassa nazionale di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia del 1898 (si veda qui).
Un processo che era maturato nella coscienza civile della popolazione e che non poteva più essere rinviato. Non riconoscerlo sarebbe come affermare che dobbiamo alla Dc la legge sul divorzio. Questi strascichi tipicamente italiani – visto che i tedeschi, salvo rari e limitati casi, se ne sono liberati da tempo – persistono anche in uomini di governo e rappresentano un pericoloso arrière pensée che inquina la nostra memoria storica e le menti dei più giovani.
Dietro questa logica si nasconde il giudizio positivo di un fascismo “buono” che avrebbe funzionato se non fosse sceso in guerra a fianco dei nazisti. Se non avesse emanato le leggi razziali; se non avesse inseguito il miraggio del colonialismo; se non avesse usato armi chimiche in Africa; se non avesse chiuso l’Italia nell’autarchia; se non avesse mandato al confino, imprigionato e fatto assassinare i suoi oppositori; se non avesse soffocato la libertà di stampa; se non avesse abolito i partiti politici; se non avesse deriso e vanificato la democrazia.
Ma tolto questo, cosa ne resta? Probabilmente niente di più di un uomo a cavallo e dei simboli fastosi di un’ambizione smisurata, a fronte di una miseria morale.