Si comincia a parlare di ripresa; le previsioni ne scontano un timido manifestarsi nella seconda parte del 2013. Comunque si deve fare i conti con i lasciti della recessione. L’ultima ha avuto effetti più indiscriminati, non risparmiando le imprese più produttive e il potenziale dell’economia.
di Sergio De Nardis* (lavoce.info)
Le condizioni dell’industria
Il potenziale di crescita di lungo periodo dell’Italia è stato danneggiato dalle due ondate recessive succedutesi dal 2007? La risposta all’interrogativo non è così ovvia. Il tessuto economico italiano è molto variegato: vi sono imprese più o meno profittevoli, più o meno fragili. In tale ambiente una caduta pur forte della domanda può costituire un fattore di scrematura, con benefici per l’efficienza complessiva; un esito che sarebbe favorito se trovasse nell’azione del credito un efficace strumento di selezione.
L’Italia del 2013-14, che secondo le previsioni conoscerà un lento recupero, non sarà in simili condizioni. I segnali di rimescolamento produttivo che emergevano nella flessione 2008-09 e nellasuccessiva breve ripresa sembrano essersi interrotti col secondo shock recessivo. Non si dispone ancora di evidenze precise, ma fanno riflettere i dati Cerved sulle liquidazioni di aziende in condizioni iniziali non rischiose; un fenomeno preoccupante sia che sottenda riallocazioni di imprese sane verso mercati più dinamici, sia che implichi repentini deterioramenti finanziari e chiusure di aziende fino a poco tempo prima in buona salute.
I problemi della domanda interna
I motivi per cui la seconda recessione ha impattato in misura più indiscriminata sono da ricondurre alla caduta senza precedenti della domanda interna e all’inceppamento della funzione selettiva del credito.
La compressione della domanda interna ha effetti pervasivi, non limitati alle aziende rivolte al mercato italiano. Interessa anche gli esportatori, cioè gli operatori più produttivi. La realtà della manifattura esportatrice è fatta di imprese che vendono molto anche in Italia: il 65 per cento del loro fatturato si realizza nel mercato domestico (tavola 1). Ciò ha conseguenze di rilievo quando la caduta della domanda interna assume le dimensioni dell’ultimo anno. Un esportatore che riesce a mantenere le sue quote sui mercati internazionali perché vi aumenta le vendite in linea con la domanda estera (del 2-3 per cento, prendendo a riferimento l’incremento del commercio mondiale nel 2012) è destinato a subire comunque una forte contrazione del fatturato complessivo (del 5-6 per cento in volume), se le sue vendite nel mercato interno cadono in termini reali in misura simile a quanto avvenuto nell’insieme dell’industria (-10 per cento). Può quell’impresa dirsi ancora di successo? Non rispetto a produttori esteri che possono essere anche meno competitivi, ma che sperimentano risultati economici migliori, perché non zavorrati dal vuoto di domanda interna.
Soprattutto, quell’impresa apparirà rischiosa a banche che, alle prese con bilanci indeboliti per crisi finanziaria e sofferenze, sono focalizzate sull’evoluzione corrente del fatturato dell’azienda e poco attente alle sue potenzialità di crescita futura. (1) La figura 1 mostra come la quota di imprese industriali che dichiarano di avere domandato credito e non averlo ottenuto sia triplicata dall’inizio della crisi del debito, seguendo l’impennata dello spread e l’inasprimento del costo del funding delle banche. Ma la figura indica anche che il rientro delle tensioni (e nell’approvvigionamento delle banche) non si è tradotto in un migliore accesso al credito: il razionamento a fine 2012 resta di intensità simile ai picchi della crisi.
Calcoli sul potenziale
In questo quadro è possibile che il ciclo avverso abbia penalizzato la struttura dell’economia, meno agevole è stabilire di quanto. Il prodotto potenziale è un concetto teoricamente definito, ma non direttamente osservabile; ci si deve basare su stime. Un approccio, in uso nell’analisi congiunturale, desume il potenziale dell’industria dal grado di utilizzo degli impianti, assumendo che questo rispecchi il rapporto tra la produzione effettiva, grandezza misurata, e il prodotto potenziale da stimare. (2) Si ottiene una misura imperfetta, ma che consente di avere indicazioni di tendenza in periodi, come quello attuale, in cui il ciclo è lungo e profondo. Sulla base di questa stima, la figura 2 mostra come le due recessioni si siano tradotte in una forte diminuzione del potenziale; con la seconda si è scesi ai livelli dei primi anni Novanta.
Naturalmente, non tutta la caduta è da considerare permanente: il potenziale tornerà certamente a salire con la ripresa dell’attività, ma di quanto? Per avere un’idea della dimensione del recupero possibile ci si chiede quanto dovrebbe crescere la produzione industriale per riportare il potenziale sui livelli pre-crisi. Supponendo per semplicità che il processo parta subito e che si realizzi col conseguimento di un pieno utilizzo degli impianti (che si ha, storicamente, quando la capacità è impiegata a circa l’80 per cento), la produzione dovrebbe aumentare di oltre il 35 per cento dai livelli di fine 2012 (tavola 2). Se la crescita trimestrale si mantenesse in media ai ritmi che hanno contrassegnato il breve rimbalzo tra le due ultime recessioni (1,3 per cento) occorrerebbero sei anni per ricostituire il potenziale del 2007; se il recupero fosse in linea con le dinamiche di ripresa dello scorso decennio (0,6 per cento) gli anni necessari sarebbero tredici. Entrambe le ipotesi implicano traiettorie produttive poco credibili, per ritmo di crescita e lunghezza del tempo. In realtà, il pieno impiego degli impianti potrà realisticamente essere raggiunto in tempi molto più brevi (storicamente, il periodo di recupero dei picchi di utilizzo è non superiore ai due anni), ma in corrispondenza di un output potenziale sostanzialmente più basso del livello che si era raggiunto nel 2007. Una quota significativa della flessione si prospetta dunque permanente. La perdita sottenderà in parte deflusso di attività verso altri paesi (già osservabile tra il 2007 e il 2010, quando gli addetti delle affilate estere di imprese industriali italiane sono aumentati di 77mila unità); ma soprattutto segnerà un ridimensionamento secco di base produttiva a fronte di una domanda interna che impiegherà, anch’essa, diversi anni prima di tornare ai livelli pre-crisi.
Queste valutazioni sono solo indicative dell’entità del regresso strutturale causato dalla recessione e dello sforzo necessario per il recupero. Non si possono escludere, esagerando in ottimismo, rimbalzi produttivi superiori a quelli ipotizzati. Ciò richiederebbe che la perdita di capacità fosse accompagnata da un forte rialzo di efficienza, da favorire anche con adeguate misure di politica economica. Data, però, la profondità della caduta da cui si proviene appare molto arduo un ritorno ai valori di potenziale di cinque anni fa.
(1) Su questo si veda l’evidenza in Giorgio Albareto e Paolo Finaldi Russo, 2012.
(2) Cfr. Marco Malgarini e Antonio Paradiso, “Measuring Capacity Utilisation in the Italian Manufacturing Sector: a Comparison between Time Series and Survey Measures”, Isae working paper, n. 129, 2010.
*Chief economist di Nomisma