Vladimir Putin, che si appresta a firmare una legge che “vieta la propaganda sessuale”, avrebbe potuto essere un leader, ma nel correre, vincendo, per un terzo mandato presidenziale ha invece deciso di essere un padrone, e questo gli ha nuociuto. Parole di Gleb Pavlovskiy, già dissidente in epoca sovietica e ora giornalista, affidate a un’intervista alla Novaya Gazeta. Non correre sarebbe stata la scelta migliore, continua Pavlovsky. Alla fine del secondo mandato il leader russo aveva un livello di gradimento e sostegno altissimo, qualcosa l’ha tuttavia messo in allarme. Ma essere leader o signore non è la stessa cosa, il primo è scelto dagli altri il secondo decide da sé, con il rischio di perdere il contatto con la popolazione.
Lo scorso maggio Putin è tornato al Cremlino dopo la parentesi del quinquennio di Dmitry Medvedev. Ma il nuovo mandato potrebbe rivelarsi meno solido dei precedenti pur senza l’emergere di una dirigenza alternativa a quella dell’ex ufficiale del KGB. I segnali di un’opposizione più assertiva però ci sono.“Grazie Vova”, si è sentito rispondere con un nomignolo da una giornalista che lo incalzava sul caso di corruzione costato l’incarico all’ormai ex ministro della Difesa, Anatoly Serdyukov. Non un episodio isolato nella conferenza stampa fiume dello scorso 21 dicembre in cui il presidente ha fugato i dubbi sul suo stato di salute e parlato a tutto campo. Ma anche altri nomi hanno segnato i primi sei mesi del nuovo corso putiniano.
L’ultimo in ordine di tempo è quello di Sergei Magnitsky, avvocato anti-corruzione torturato e morto tre anni fa in carcere perché accusato di evasione fiscale subito dopo aver svelato frodi di esattori e poliziotti. Il caso ha aperto un nuovo fronte di scontro tra i governi di Mosca e di Washington, che rischia di aggravarsi se dovessero cadere le accuse contro l’unico imputato per la morte del legale, il vice direttore del centro in cui Magnitsky fu tenuto in custodia, Dmitry Kratov. Magnitsky dà il nome a una legge statunitense che mette al bando i funzionari russi coinvolti nell’omicidio e più in generale nella violazione dei diritti fondamentali. Un eventuale proscioglimento va contro la direzione auspicata dagli Stati Uniti. Ennesima tegola dopo la cacciata di UsAid dalla Russia e per la posizione di Mosca sulla questione siriana, sebbene proprio in una delle ultime conferenze stampa prima della fine dell’anno lo stesso Putin abbia sottolineato come il destino di Assad non sia la sua prima preoccupazione.
Intanto la reazione della Duma alle restrizioni per i funzionari è stata l’approvazione del divieto per le famiglie statunitensi di adottare bambini russi. Un provvedimento controverso per i critici che respingono la scelta di giocare una partita politica sulla pelle dei bambini, messo assieme ad altre norme che a esempio congelano i conti degli statunitensi accusati di violare i diritti dei russi o limitano il lavoro delle organizzazione non-governative che ricevono fondi Usa. Per le Ong un nuovo colpo dopo l’entrata in vigore delle leggi che impongono la registrazione come agenti stranieri per le organizzazioni finanziate da altri Paesi ed espandono la definizione di tradimento e rivelazione di segreto di Stato. Norme che, a detta degli osservatori, sono una ritorsione contro la società civile per le manifestazioni antigovernative che hanno segnato la prima metà del 2012.
Alle proteste sono legati altri due nomi con cui Putin deve confrontarsi: Alexei Navalny e Sergei Udaltsov. Entrambi sono i volti noti dell’opposizione. Il primo, blogger anticorruzione, è finito nella maglie della giustizia per la terza volta negli ultimi cinque mesi. Alla vigilia di Natale, Navalny è stato indagato per truffa. Per gli inquirenti, nel 2007 frodò per 100 milioni di rubli (circa due milioni e mezzo di euro) un partito liberale per cui curava una campagna d’immagine mai realizzata. Circostanza smentita dagli stessi funzionari del movimento, l’Unione delle forze di destra. L’attivista 36enne vede dietro le accuse la mano del Cremlino, così come per la presunta appropriazione indebita ai danni di una società statale che commercia legname e all’indagine per riciclaggio aperta contro di lui appena una settimana fa.
Alcuni commentatori hanno paragonato la vicenda Navalny a quella dell’oligarca Mikhail Khodorkovsky cui è stata concessa una riduzione della pena a 13 anni di carcere per evasione e frode, che quindi uscirà dalla cella alla fine del 2014. Figura controversa l’ex patron della Yukos è considerato uno dei maggiori oppositori di Putin, sebbene i critici ritengano la sua caduta il risultato di una lotta di potere all’interno dell’oligarchia russa. I due anni di reclusione in meno “danno segnali contrastanti”, ha spiegato al Finacial Times, l’analista del Carnegie Moscow Institute, Masha Lipman. “Sia l’arresto sia la condanna furono senza dubbio decisioni prese dall’alto”, ha sottolineato, “lo stesso vale per lo sconto di pena”. Questo sebbene in molti leghino la clemenza verso Khodorkovsky e il suo partner d’affari Platon Lebedev al recente rilassamento delle pene per i reati economici per cui sono stati condannati.
Più pesanti le accuse contro il leder del Fronte della sinistra Udaltsov indicato come cospiratore che mira a rovesciare il governo con il sostegno di Paesi stranieri. La vicenda parte dallo scorso ottobre. Un documentario, “Anatomia di una protesta 2”, trasmesso da una televisione vicina al Cremlino, nel raccontare la genesi delle manifestazioni anti-putiniane riprese alcuni uomini intenti a discutere su come innescare una rivolta in Russia. Del gruppo fa parte il politico georgiano Givi Targamadze, non l’interlocutore più gradito considerati i rapporti tesi tra Mosca e Tbilisi sfociati in una guerra lampo nell’estate del 2008. Gli altri del gruppo erano Udaltsov, il militante di sinistra Leonid Razvozzhayev, agli arresti da ottobre, e un terzo attivista, Kostantin Lebedev, che in caso di condanna rischiano fino a dieci anni di carcere.
Più che personaggi come Udaltsov e Navalny ad attirare i riflettori sono stati tuttavia i volti prima incappucciati da passamontagna colorati e poi ripresi in un’aula di tribunale delle tre Pussy Riot: Ekaterina Samutsevich -scarcerata lo scorso ottobre- Maria Alyokhina e Nadezhda Tolokonnikova. Il flash-mob con cui inscenarono una preghiera anti-Putin nella cattedrale del Cristo Salvatore è costatato alle ragazze una condanna a due anni per vandalismo con l’aggravante dell’odio religioso. Il collettivo punk femminista ha diviso l’opinione pubblica. Buona parte dei russi non ha gradito gli attacchi alla chiesa ortodossa, nella figura del patriarca Kirill, accusato per il sostegno a Putin. Lo stesso presidente ha cercato di smarcarsi chiedendo una condanna lieve per le tre ragazze diventate icona della libertà d’espressione in Russia, sebbene con il rischio di diluire il radicalismo sociale che il collettivo esprime, enfatizzandone soprattutto il carattere pop. “La situazione è cambiata, ma la voglia di protesta rimane”, ha detto Samutsevich intervistata dal Guardian.
Intanto, scrive il Moscow Times, un nuovo motivo di scontento può diventare la scintilla di nuove manifestazione, questa volta interessando una fetta più ampia della popolazione e non soltanto i ceti urbani coinvolti nel movimento d’opposizione a Putin. Questa volta a smuovere i cittadini potrebbero essere l’aumento delle bollette a causa delle cattive condizioni delle reti di distribuzione e della corruzione. Tema su cui i leader dell’opposizione stanno puntando l’attenzione.
di Andrea Pira