Economia & Lobby

Roma, Fitch mette sotto osservazione la situazione finanziaria della città

Mentre il Parlamento attende ancora un resoconto della gestione commissariale del debito pregresso da 12 miliardi nelle mani del boiardo di Stato Massimo Varazzani, l'agenzia di rating accende un faro sul miliardo di debito corrente in circolazione

I conti di Roma scricchiolano e Fitch vuole vederci chiaro. Per questo l’agenzia di rating francese ha messo sotto osservazione il debito a lungo termine della capitale con possibili implicazioni negative sul giudizio sulla situazione finanziaria della città. La decisione, come spiega una nota della società, è legata alle previsioni di “forti pressioni di bilancio e di liquidità” nel caso non vengano introdotte misure correttive per riequilibrare i conti nel periodo 2013-2015. Gli esperti dell’agenzia di rating sottolineano che “senza tali aggiustamenti, Roma potrebbe segnare nell’anno in corso un deficit operativo di 200 milioni di euro, pari al 4% delle entrate, un rosso che potrebbe salire a 300 milioni nel 2015“.

Attualmente Roma ha un rating di A- sul debito a lungo termine, che corrisponde al gradino più basso di una buona probabilità di rimborso del capitale più interessi. Un declassamento porterebbe il giudizio al livello del primo scalino (BBB+) della qualità media di probabilità di rimborso facendo automaticamente salire il conto degli interessi passivi sulla gestione ordinaria della capitale. All’amministrazione di Gianni Alemanno resta però ancora del tempo per fare ordine in casa: Fitch, infatti, deciderà sul declassamento nei prossimi sei mesi. Ma la minaccia di un taglio della raccomandazione è seria e concreta dal momento che un declassamento si ripercuoterebbe su una quantità di debito corrente in circolazione pari, a fine dicembre 2012, a 1,07 miliardi di euro, oltre che sulle future emissioni dirette come del resto ricorda l’agenzia.

A latere dell’affare Fitch, c’è poi l’attesa in Parlamento di un resoconto della gestione commissariale del debito pregresso da 12 miliardi del Comune di Roma nelle mani del manager Massimo Varazzani, che ricopre anche l’incarico della amministratore delegato di Fintecna, cassaforte delle partecipazioni del ministero del Tesoro e che in passato è stato ai vertici della Stt, holding parmigiana che sta affossando il Comune guidato dal sindaco 5 Stelle Federico Pizzarotti. In Parlamento l’onorevole Pd Marco Causi, che, fra il 2001 e il 2008, ha ricoperto l´incarico di assessore per le politiche economiche, finanziarie e di bilancio della capitale, accanto al sindaco Walter Veltroni, ha depositato anche un’interrogazione in merito lo scorso novembre che punta a conoscere nel dettaglio il bilancio della gestione commissariale e i criteri di selezione dei creditori pagati. Tuttavia finora i quesiti sono rimasti senza risposta. In compenso, per forza di legge, Varazzani dovrà presentare il primo resoconto della gestione entro aprile 2013.

I trascorsi di Varazzani del resto non lasciano dormire sogni tranquilli ai cittadini, come testimonia la drammatica situazione della Stt: in un’intervista rilasciata a La Repubblica, edizione locale del 20 maggio 2011, il manager all’epoca ai vertici della Stt, a proposito della holding del comune di Parma parlava di una cassaforte“più solida che mai”. Tuttavia il manager vicino all’ex ministro Giulio Tremonti che era stato chiamato al capezzale di Stt dall’ex sindaco Pdl Pietro Vignali, si dimise a sua volta da Parma nel giro di un anno in piena polemica per una serie di dispendiose consulenze (circa 3 milioni) affidate senza passare per una gara pubblica.

Un atteggiamento non nuovo e stigmatizzato, in passato, anche dalla Corte dei Conti che, nella relazione al bilancio di Fintecna 2010, evidenziava come Varazzani avesse affidato all’esterno “l’analisi e la valutazione delle attività di Fintecna Immobiliare e del suo sviluppo”, per un corrispettivo di 410mila euro senza passare per un concorso pubblico. Consulenze a parte, resta una sola certezza: la delicata situazione di Parma che tenta disperatamente di “mettere in sicurezza i conti del comune” gravato dai debiti della controllata Stt holding con il rischio di dissesto dietro l’angolo, dopo una fase di commissariamento durata da novembre 2011 a maggio 2012 durante la quale sono stati accertati debiti per oltre 800 milioni di euro.

L’ipotesi di default, che nel caso della capitale è esclusa per via della separazione del debito pregresso da quello ordinario avvenuta per legge, non è certo una passeggiata da affrontare per nessun comune. E a pagare le spese della mala gestio degli amministratori pubblici rischiano di essere i comuni cittadini con aumento di Imu e Tarsu ai massimi consentiti dalla legge, mobilità per i dipendenti pubblici e riduzione all’osso dei serviziE’ infatti questo lo scenario a tinte fosche verso il quale vanno non solo i comuni che finiscono in dissesto, ma anche quelli che hanno chiesto di accedere al fondo Salva-enti, ultima ciambella di salvataggio lanciata a fine dicembre dal governo di Mario Monti a comuni e province in crisi.

In entrambi i casi, sia pure con modalità e intensità diverse, è necessario infatti varare un piano di riequilibrio dei conti. Un progetto di rientro dai debiti che rischia di costare lacrime amare ai cittadini per gli errori compiuti dai loro amministratori. Difficile dire quanti enti locali si trovino già vicini al dissesto, ma per avere un’idea della situazione basta pensare che, sulla base dei dati della Corte dei Conti, dal 1989 al febbraio 2012 sono stati 450 i comuni italiani che hanno dichiarato fallimento per l’impossibilità di ripagare i propri debiti. Una recente indagine del settimanale Il Mondo rivela poi che sono invece 43 gli enti locali (40 comuni e 3 province) che a fine dicembre hanno richiesto l’accesso al fondo Salva-enti.

Fra questi capoluoghi come Napoli, Catania, Messina, Cosenza, Foggia, Benevento, Reggio Calabria e le province di Chieti, Catania e Potenza, ma anche piccoli centri come Casamicciola, Cefalù, Eboli, Battipaglia per un totale di oltre 4 milioni di cittadini coinvolti e 762 milioni di euro di aiuti pubblici richiesti. Non tutti gli enti, che tuttavia complessivamente rappresentano una piccola parte del debito pubblico (un centinaio di miliardi su un totale di 2mila miliardi), riusciranno però ad accedere alla procedura che prevede il rimborso del prestito. Ministero e Corte dei Conti stanno infatti verificando la sussistenza dei requisiti necessari. Successivamente gli enti che avranno passato l’esame dovranno mettere nero su bianco l’impegno ad una riduzione della spesa corrente compresa fra il 5 e il 15% e al taglio delle uscite per traferimenti ad altri enti compreso tra il 25 e il 30 per cento.

La lista dei comuni che hanno chiesto accesso al fondo rappresenta però solo un piccolo spaccato di una realtà ben più importante: non sono inclusi ad esempio casi come Ancona o la stessa Parma, nonostante le forti tensioni sui loro bilanci. L’elenco degli enti in vero e proprio dissesto rischia, dunque, di allungarsi ulteriormente anche per via della pesante flessione del mercato immobiliare che mette in discussione in maniera indiretta il valore del mattone in bilancio e i possibili incassi da eventuali cessioni studiate dagli amministratori per ripianare i debiti.