In molti sanno quanto Oscar Wilde sia un autore saccheggiato per le sue sagaci affermazioni rese aforismi fra i più celebri. E in moltissimi, ma moltissimi proprio, ne hanno fatto uso da qualche parte nella loro vita per giustificare le loro pensate o le loro azioni (una delle più diffuse e sfruttate probabilmente è quella, in doppia versione, delle tentazioni a cui cedere non sapendovi resistere…)
Ho letto qualche giorno fa il suo “L’individuo nella società socialista”, noto libricino in veste di saggio di cui mi ha fatto dono una sera leggermente ebbra Cesare Basile, meritevole songwriter siciliano e assai bella testa pensante. Eravamo entrambi ospiti protagonisti di uno spettacolo celebrativo di un disco di Nick Cave (Murder Ballaads), tenutosi a Rimini: nel dopo concerto, sbevacchiando in un bar della città vecchia, me lo ha fatto ritrovare fra le mani previa sommaria ma efficace presentazione…
Ora vorrei saccheggiarlo anch’io prendendo alcune sue affermazioni, per rigirarvele.
– Quando una società o una gran parte di essa, o un governo di qualsiasi specie, cerca di dettare all’artista ciò che egli deve fare, l’arte scompare interamente o diventa stereotipata, o degenera in una bassa e ignobile forma di mestiere
– Un’opera d’arte deriva la sua bellezza dal fatto che l’autore è ciò che è, e non ha niente di comune con il fatto che altri vogliano ciò di cui han bisogno.
– L’arte è l’espressione più intensa di individualismo che il mondo abbia conosciuto.
– L’arte non può mai cercare di essere popolare. E’ il pubblico che deve cercare di diventare artistico.
– Il vero artista è l’uomo che crede assolutamente in sè, perché egli è assolutamente se stesso
– Un artista guadagna sempre qualcosa ad essere attaccato. La sua individualità vi guadagna. Egli diventa più completamente se stesso. Si sa, gli attacchi sono molto volgari, molto avvilenti, molto impertinenti. Ma nessun artista si aspetta grazia dalle menti volgari, o carattere dall’intelletto suburbano. La volgarità e la stupidità sono due fatti veramente reali della vita moderna
– Ciò che impedisce al pubblico di diventare più civile è il suo desiderio di esercitare un’autorità sull’artista e sull’opera d’arte.
Sono affermazioni non molto spiazzanti (Oscar Wilde ha abituato il mondo a cose più deflagranti di queste), e peraltro sono affermazioni che prese in modo idealistico stimoleranno di sicuro qualche “sentenza” tanto legittima quanto discutibile (da me sicuramente, quantomeno, visto che non sono così idealista tout court e visto che amo poggiare i miei piedi sulle piattaforme di un pragmatismo di sussistenza), ma, senza premunirmi di interpretarla e prevenirla qua, mi soffermo più genericamente su uno dei risvolti che più mi incuriosisce.
Si parla delle ingerenze del pubblico, della sua volgarità e della sua pretesa di chiedere all’artista ciò di cui esso (pubblico) ha bisogno. Ovvero della sua brama di esercitare un’autorità.
A una lettura sbrigativa è facile pensare al pubblico generico, quello non abituato alle raffinatezze del gusto, non attivo nella sua ricerca di “impegno” artistico, ma ondivago e succube delle mode e dello status quo; quindi, sostanzialmente, alla massa, quella a cui si rivolgono i prodotti più commerciali.
Ma io penso si possa ragionare su qualcosa di meno scontato, grazie anche alla mia esperienza di musicista con alle spalle 8 dischi di inediti e più di 1300 concerti su e giù per la penisola.
Una delle litanie più consolidate al nostro riguardo è quella che ci ha rivolto tempo fa, perpetuandola con sorprendente tenacia, parte del pubblico cosidetto di nicchia, quello a cui piacevano le nostre prime cose in contrapposizione a quelle successive. Il discorso relativo alle “prime cose” riguarda un vezzo tipico di questo genere di pubblici, fra le cui file si annidiano coloro che amano pensare ai propri beniamini come a coloro che la maggior parte del mondo non deve conoscere, quasi ritenendoli loro proprietà per via dell’esserne stati a loro tempo gli scopritori. E allora, appena il gruppo si espande, ecco che per molti questo diventa un tradimento, da rinfacciare vita natural durante agli ormai ex-amati. O, se non si parla di fans con una certa dose di visceralità nelle fibre, il superamento di una certa soglia di popolarità fa scattare lo snobismo di chi passa sicuramente ad ascoltare altro per non sentirsi accomunato al volgo.
Tornando allo specifico dei Marlene Kuntz: chi ci apprezza sa che abbiamo sempre cercato di non dipendere da questi parametri, cercando in verità di far sempre cosa più ci andava di fare. E sa che è bastato distorcere meno le chitarre per far scattere una equazione banale di pretese (nostre) di ammiccamenti e commercializzazioni (eppure quanti gruppi suonano con le chitarre acustiche o elettriche ma non troppo irruenti pur senza essere percepiti come ammiccanti o commerciali…).
A volte nella mia testa, ma anche in quella dei miei sodali di sempre, Riccardo e Luca, ci sarebbe stato spazio per la creazione di cose ancora più lontane da ciò che ci si aspetta da noi. Che ne so… un pezzo decisamente pop e leggero (come quelli che chiunque, musicisti super intransigenti inclusi, canta sovente sotto la celeberrima doccia o nella sua quotidianità, apprezzando e magari invidiando), oppure una cosa danzereccia, o elettronica, o semplicemente commerciale e volendo anche stupidina (meglio: intelligentemente stupidina), per puro vezzo e divertimento e/ma anche perché sarebbe proprio potuto essere appagante. Ma il cliché appioppato su di noi porterebbe senz’altro al ripudio da parte di praticamente tutti coloro che ci apprezzano.
Questo discorso vale per chiunque (“chiunque” per me vuol dire “chiunque”, in qualunque parte del mondo): qualsiasi gruppo nato con certe caratteristiche in quelle bene o male sempre sguazzerà, senza poter mai allontanarsi più di tanto dal mood precipuo che lo ha forgiato alla sua nascita, pena il grossissimo rischio di doversi prima o poi trovare un altro lavoro (sempre che la prospettiva non gli risulti interessante per insindacabili motivi).
E non è forse (ecco il punto a cui volevo arrivare) anche questo un chiaro esempio di pubblico che pretende di ottenere dall’artista ciò che in realtà vuole per sé? Anche se si tratta di pubblico di nicchia, ovvero di pubblico per definizione interessato all’opera d’arte “che deriva la sua bellezza dal fatto che l’autore è ciò che è, e che non ha niente di comune con il fatto che altri vogliano ciò di cui han bisogno”? Pubblico che si autodefinisce interessato alle cose veramente artistiche, “nuove”… Ma sa davvero cosa è veramente artistico e “nuovo”, questo pubblico? E il concetto stesso di “sperimentazione”, che in genere lo si associa a esiti creativi “contro”, ovvero rappresentati da un linguaggio urtante (ma spesso del tutto convenzionale nella sua appartenenza a un genere ben preciso), non sarebbe a volte più appropriato se attribuito alla ricerca di modi espressivi altri rispetto a quelli consolidati dal cliché di se stessi? Sperimentare, ovvero fare – eventualmente – altro rispetto a ciò che il pubblico si aspetta – magari – da te…