Già da tempo si sente parlare di emissioni di CO2 equivalente legate al ciclo di vita dei prodotti. Il cosiddetto “carbon footprint”, o impronta di carbonio. Negli ultimi anni si inizia a parlare anche di consumo di acqua, il Water Footprint, che misura l’utilizzo di acqua dolce consumato per produrre un prodotto, sommando tutte le fasi della catena di produzione. Il termine “virtuale” si riferisce al fatto che la grande maggioranza dell’acqua utilizzata per realizzare il prodotto non è contenuta fisicamente nello stesso, ma è stata consumata durante l’intero ciclo di vita.
La metodologia impiegata per la misura dell’indicatore è stata elaborata dal Water Footprint Network, organizzazione no profit di riferimento che opera a livello internazionale per standardizzare il calcolo e l’utilizzo di questo indicatore di impatto. Il Water Footprint di un prodotto tuttavia è dato dalla somma di tre componenti alle quali corrisponde un diverso impatto sull’ambiente:
1. la green water: volume di acqua piovana evapotraspirata dal suolo e dalle piante coltivate;
2. la blue water: volume di acqua proveniente da corsi superficiali o falde sotterranee, impiegato lungo la filiera produttiva ma che non viene restituito al bacino di prelievo (include sia l’acqua di irrigazione che quella di processo);
3. la grey water: volume di acqua eventualmente inquinata durante la produzione e misurato come il volume di acqua teoricamente richiesto per diluire gli inquinanti per riportare l’acqua stessa agli standard di qualità naturale.
Ovviamente nelle filiere agroalimentari, la voce più rilevante ma anche più complessa da valutare è la componente di green water, in quanto strettamente collegata alle condizioni climatiche locali e al tipo di specie coltivata e dalla sua resa produttiva. Pertanto è facile intuire che il valore di green water di un prodotto può cambiare molto, sia da regione a regione, sia da anno ad anno, senza che questo necessariamente significhi un diverso impatto sull’ambiente.
Pertanto, quando leggiamo che una tazzina di caffè “consuma” 140 litri d’acqua o una bistecca da un chilo 15.000 litri, o ancora che un bicchiere di vino o di latte “impiega” 120 litri di acqua, bisogna considerare che di questi, il 99% è composta da green water, quindi non acqua sottratta ai bacini o falde acquifere (la blu water) o potenzialmente inquinata (grey water).
Quello che manca ad oggi è appunto una pesatura ponderata di ciascuna componente, così come già avviene per i gas climalternati, tutti rendicontati per semplicità in CO2 equivalente ma con moltiplicatori diversi per ciascun gas. Ad esempio, nel caso del metano, il volume emesso in atmosfera viene moltiplicato per 22 volte per contabilizzarlo in CO2, ed il protossido di azoto si moltiplica addirittura per 220.
Questo non significa che non bisogna continuare a fare scelte coscienti privilegiando prodotti a ridotto impatto: da agricoltura biologica, locali, stagionali, ecc., ma con la consapevolezza che in alcuni casi i dati sono ancora solo indicativi, e che in una dieta equilibrata c’è spazio per tutti i prodotti. Anche dal punto di vista ambientale.