Per battere la malattia gli oncologi dell’Aiom, i ginecologi della Sigo e gli esperti della Siog hanno raccolto in un documento le migliori strategie d’azione. Un piano che fissa le competenze all’interno del team d’intervento, con l’obiettivo di garantire un’azione rapida. La probabilità di vincere il tumore, quando è allo stadio iniziale, raggiunge il 90%
Strategie comuni e condivise per lanciare l’attacco al cancro dell’ovaio. Tumore che ogni anno in Italia fa registrare 5 mila nuovi casi e 8 diagnosi su 10 arrivano quando la neoplasia è ormai in fase avanzata. Per battere la malattia gli oncologi dell’Aiom, i ginecologi della Sigo e gli esperti della Siog hanno unito le forze in un documento operativo, presentato a Milano, sulle migliori strategie d’azione. Un piano che fissa le competenze all’interno del team d’intervento, con l’obiettivo di garantire un’azione rapida se gli specialisti lavorano fianco a fianco in strutture riconosciute. Perché la probabilità di vincere il tumore, quando è allo stadio iniziale, raggiunge il 90%. “In Italia siamo all’avanguardia nella gestione di queste pazienti, ma registriamo una scarsa comunicazione fra ginecologo e oncologo e le altre figure chiave coinvolte. E non abbiamo percorsi condivisi, al contrario di quanto accade per altri tumori, come quello della mammella”, affermano i presidenti della Società di ginecologia e ostetricia (Sigo), Nicola Surico, e dell’Associazione di oncologia medica (Aiom), Stefano Cascinu, in occasione della Giornata mondiale contro il cancro.
Il ‘target’ degli specialisti è “favorire la creazione di veri e propri team collegiali, un numero minimo di interventi per essere indicati come centri di riferimento e – osservano – la collaborazione fra le diverse strutture, per garantire la migliore assistenza alle donne italiane colpite dal tumore all’ovaio”. E’ la prima volta che le società scientifiche – oltre ad Aiom e Sigo c’è anche la Società di oncologia ginecologica (Siog) – decidono di mettersi insieme. “Abbiamo definito, sul modello delle ‘breast unit’ per il cancro alla mammella, una serie di indicatori per i centri di riferimento sulla neoplasia dell’ovaio – spiega Paolo Scollo, presidente Siog – deve essere sempre presente, ad esempio, un’equipe multidisciplinare dedicata, con professionisti che lavorano fianco a fianco in perfetta integrazione”.
Secondo Scollo è centrale anche il problema della comunicazione, come ha rilevato un recente sondaggio: “Ben il 63% degli oncologi e il 32% dei ginecologi ritengono che il livello di cooperazione non sia sufficiente. Per l’86% di loro, una collaborazione continua è determinante per definire percorsi guidati e codificati uniformemente in tutta la Penisola. Non possiamo perdere altro tempo – aggiunge Scollo – soprattutto ora che dopo quindici anni disponiamo di nuove terapie, purtroppo ancora in attesa di approvazione nel nostro Paese”. Il documento tecnico fissa competenze ben precise all’interno dei team di intervento. Oltre a una serie di indicatori che le unità operative di riferimento sul territorio dovranno rispettare, considerando sia il carico di lavoro annuale che la multidisciplinarietà. Ad esempio, ogni chirurgo ginecologo-oncologo dovrà trattare almeno dieci casi di carcinoma ovarico all’anno e non potranno passare più di 14 giorni dalla prima visita della paziente all’intervento. “Il documento ufficiale è già stato consegnato alle istituzioni sanitarie del Paese, anche se – aggiungono i tre esperti – già noi lo diffonderemo ai nostri soci perché possa diventare operativo a tutti gli effetti”. Il cancro dell’ovaio rappresenta il 3% del totale delle neoplasie femminili, il decimo più diffuso tra le donne, ma rientra tra le prime 5 cause di morte per tumore nella fascia di età tra i 50 e i 69 anni. A causa proprio della sintomatologia tardiva e senza segni specifici, circa 4 pazienti su 5 presentano alla diagnosi una malattia in fase molto avanzata (III – IV stadio). Questo condiziona negativamente la prognosi della patologia, per sua natura già aggressiva. Solo il 41% delle donne colpite da un tumore dell’ovaio nella prima metà degli anni 2000 risulta ancora in vita a 5 anni dalla diagnosi (72% a 1 anno e 50% a 3 anni). “Grazie al nostro lavoro riusciremo nel tempo ad agire in maniera sempre più efficace – concludono Surico, Cascinu e Scollo – sia dal punto di vista clinico-terapeutico, che dell’assistenza sul territorio”.