Mario Gelardi è un autore, un regista e uno sceneggiatore di spessore. Da sempre è immerso nel teatro d’impegno civile. Un teatro che racconta storie a partire da testimonianze, da memorie, da fatti realmente accaduti. Un teatro scomodo. Il suo mestiere lo fa senza fare inchini e genuflessioni ai boss della cultura e del teatro napoletano. E’ facile intuire che Mario Gelardi dà fastidio e va ignorato. Lui, indomito nel 2011 ha fondato insieme ad altri epurati anche una casa editrice Caracò. In questi giorni mi raccontava come sia difficile mettere su uno spettacolo a Napoli e in Italia come “Le guardie del suo corpo”, una storia liberamente ispirato alle vicende dell’ex Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Vorrei cedere questo spazio blog proprio a Mario così direttamente racconta lo stato del teatro in questo nostro sfortunato paese.
“Vorrei fare una riflessione non artistica che lascio a colleghi più preparati di me, ma una riflessione da padre di famiglia che deve amministrare uno stipendio come in un qualsiasi lavoro. Accanto ai teatri grandi e grandissimi, guidati da direttori grandi e grandissimi, nominati da politici piccoli e piccolissimi, ci sono i teatri medi e piccoli che, fatto sta, sono la maggioranza. Essenzialmente ci sono tre modi per produrre uno spettacolo, o lo produce un teatro stabile, che sono come un ministero succhia soldi, luoghi di potere e di prestigio più che di cultura. O ci si rivolge ad un produttore privato che di ti chiederà di portargli il “nome”, che di norma è televisivo e costa tanto, più di quello che fa incassare di solito, oppure il così detto “metodo indipendente”, quello dei piccoli gruppi teatrali, dei giovani, delle associazioni, che per esser chiari non è altro che un’autoproduzione.
Questo non è necessariamente un male, ti pone sul mercato culturale e al contatto col pubblico, vai avanti se il pubblico decide di vedere il tuo spettacolo. Questo in un mondo ideale che mi sembra di notare non sia il nostro. Facciamo i conti del buon padre di famiglia. I teatri piccoli che sono anche quelli più aperti all’accoglienza, e che detto per inciso rischiano di chiudere ogni giorno, hanno una media di cinquanta posti. Immaginiamo che il biglietto d’entrata costi 10 euro. Mettiamo che si faccia il tutto esaurito, per un totale di 500 euro. La prima cosa da sottrarre è la Siae, pari in questo caso a circa 41 euro. Ovviamente sei a percentuale, quindi come compagnia ti spetta il 70% dell’incazzo netto. Facciamo il caso che in scena ci siano due attori. A carico della compagnia ci sono le spese di agibilità e di costo del lavoro (Inps, Enpas, Inail,… per capirci), 40 euro ad attore circa sulla paga minima sindacale. A questo punto il buon padre di famiglia deve fare due conti, 306 euro di incasso netto, meno 80 euro , il totale è 226 euro lordi, pari a circa 180 euro netti a cui togliere l’iva al 10. Ma questa è una previsione ottimistica, il buon padre di famiglia deve tener conto degli imprevisti, il tecnico luci per esempio, lo spettacolo potrebbe prevedere scene, costumi, la benzina se il teatro è fuori mano, una schifezza di locandina che però chiedi ad un grafico amico, quindi ti costa la stampa, mettiamo il caso che il direttore del suddetto teatro è generoso e non ti fa pagare l’affitto luci e che magari non lo devi rincorrere per farti pagare.
Ora nella più ottimistica delle ipotesi le tre persone che hanno dato vita allo spettacolo possono disporre di circa sessanta euro a testa. Ovviamente tenendo conto che hanno fatto il tutto esaurito e che non hanno dato un omaggio nemmeno a babbo e mamma. Facendo i conti che non piove, che non fa tropo caldo, ce non ci sia una partita del Napoli, che non ci sia il blocco dei mezzi pubblici. Questi conti del buon padre di famiglia o della serva se preferite, forse ai non addetti ai lavori possono sembrare inverosimili o addirittura patetici, ma sono la norma. Sono il danaro con cui si deve rapportare chi fa questo lavoro, ora più che mai. Siamo davanti ad una scelta politica importante sia a livello nazionale che locale, se non si vuole che il teatro diventi una scelta di élite , per chi lo fa e per chi lo guarda, se non vogliamo che diventi un arte da museo, se vogliamo che il teatro sia alimentato da giovani artisti, ma anche meno giovani, è impossibile escludere un aiuto mirato e saggio da parte dell’istituzione pubblica. Se poi crediamo che il teatro sia come un panino da fast food, una merce qualsiasi, trattiamolo come una bottiglia di latte, mettiamolo esposto in un frigorifero, consideriamolo un carciofo sul banco della frutta al mercato. Se pensiamo che il teatro, la cultura sia come il dolce (o l’aragosta come ebbe a dire un assessora) a fine pasto, gradevole ma non indispensabile, facciamolo definitivamente sparire. La sensazione in realtà è che sia già sparito, che sia un malato terminale per cui nessuno si prenda la responsabilità di staccare la spina.
Il timore fondato è che di tutto questo non gliene importi davvero niente a nessuno. La sensazione è che gli amministratori della mia città, di questa regione e forse di questo paese, al di là delle propagandate buone intenzioni, di come si gestisce la cultura, nella migliore delle ipotesi , non ne capiscano davvero nulla. La situazione attuale è anche responsabilità e bisogna dirlo a gran voce, della scandalosa e clientelare amministrazione della cultura delle passate giunte, con fondi caduti a pioggia che sono serviti più a fare vacanze che a fare teatro. E se qualcuno dice “dateci voi un’idea”, raccogliamo la sfida, tranquilli, ma non chiedeteci di fare la moltiplicazione dei pani e dei pesci, non tocca agli uomini di cultura indicare come amministrare le risorse pubbliche. Non è un caso che la cultura sia marginale nei programmi dei partiti candidati alle elezioni e quando c’è , ha argomenti davvero patetici.”