Navi pronte a trasportare ogni tipo di carico. Armi. Contrabbando di merce. E, quando serviva, rifiuti. Vecchie carrette da comprare per due soldi e da imbottire con ogni tipo di scoria, chiamata in gergo “merda”, da far affondare di fronte alle coste italiane, con la sicurezza che nessuno sarebbe poi andato a cercarle. E un’organizzazione ramificata, potente, in grado di “ungere” le dogane, collegata con potenti imprenditori mediorientali, terminale dei peggiori commerci verso l’Africa. Una rete, questa, rimasta sostanzialmente impunita, attivissima tra gli anni ’80 e ’90, composta da agenzie marittime, broker, imprenditori senza scrupoli, radicata tra il porto di La Spezia – crocevia verso il mediterraneo – e le banchine di Marina di Carrara, il vero asse italiano della logistica dei veleni e degli armamenti.

Uno scenario che oggi è possibile ricostruire nei dettagli attraverso documenti inediti che ilfattoquotidiano.it ha potuto consultare, mentre la commissione parlamentare d’inchiesta sui rifiuti firma la relazione finale sulla morte del principale investigatore delle navi dei veleni, il capitano di corvetta Natale De Grazia. Un ufficiale delle capitanerie di porto medaglia d’oro per meriti investigativi, morto avvelenato nel dicembre 1995 mentre raggiungeva La Spezia per incontrare una fonte confidenziale e per cercare di bloccare una nave russa, pronta a partire “con un carico particolare”.

I nomi chiave di quell’inchiesta, poi finita con un’archiviazione firmata dal Gip di Reggio Calabria, sono due: Rigel e Latviya, due navi sparite per sempre. La prima affondata al largo di capo Spartivento, davanti al mare calabrese, il 21 settembre del 1987. La seconda ufficialmente smantellata a Alanga, in Turchia, il 4 dicembre del 1995, nove giorni prima della morte di Natale De Grazia su un’automobile che da Reggio Calabria lo portava a La Spezia. Due cargo che – secondo alcune fonti – nel loro ultimo viaggio avrebbero trasportato scorie pericolosissime, probabilmente derivate dall’industria nucleare. Rifiuti che ancora oggi riposerebbero sui fondali dei nostri mari.

Il 1987 è l’anno delle navi dei veleni, ovvero quel via vai di battelli caricati con gli scarti dell’industria chimica, partiti dai porti italiani e sbarcati alla chetichella in Venezuela, in Libano e in Nigeria. I nomi di quelle navi sono noti grazie alle denunce che la lista dei Verdi di Marina di Carrara presentò nel febbraio di quell’anno, allarmati dall’arrivo di un centinaio di camion carichi di bidoni sulle banchine del porto toscano. Rileggendo le carte dell’inchiesta di Natale De Grazia oggi lo scenario appare molto più ampio e, soprattutto, sembra ormai chiaro che dietro i traffici dei veleni di quegli anno operasse un gruppo di altissimo livello, in grado di mantenere relazioni con reti criminali internazionali.

Il capitano di corvetta morto il 12 dicembre del 1995 stava da mesi cercando di ricostruire i movimenti di quella organizzazione – con base a La Spezia – specializzata nel preparare i viaggi clandestini delle armi e dei rifiuti. De Grazia aveva in mente, come una sorta di ossessione, il nome della nave affondata nel 1987, la Rigel, e una frase scritta sulla pagina di quel giorno da Giorgio Comerio, noto internazionalmente per un progetto di affondamento nei fondali marini di missili imbottiti di scorie radioattive: “Lost the ship”, ovvero, “Persa la nave”.

Nel suo ultimo viaggio a La Spezia, De Grazia aveva come missione quella di recuperare le carte dell’inchiesta sul gruppo che si era occupato della Rigel, composto da un funzionario della dogana, Gennaro Fuiano, da diversi agenti marittimi e da armatori. Erano stati intercettati dall’ottobre del 1985 dalla Guardia di finanza che nell’informativa finale parlerà di “un’associazione per delinquere dedita agli affondamenti preordinati dei natanti”. Esattamente la tesi che aveva in mente De Grazia. Quell’inchiesta di La Spezia era partita nel 1986 da un altro affondamento sospetto, la sparizione in mare della motonave Barbara, ufficialmente caricata con tondini di ferro, uno dei nomi che compone la lunga lista delle possibili navi a perdere, le carrette forse affondate dolosamente nei nostri mari cariche di rifiuti.

Fuiano era considerato il motore del gruppo: “Qui è tutto pronto, c’è anche la ‘cosa’ a Marina di Carrara”, spiegava al telefono alla fine del 1986, quando iniziava la stagione delle navi dei veleni. Di che si trattava? Un tale Paolo, in un’altra telefonata, parlava di una quindicina di cisterne, per un’operazione da fare rapidamente, “appena è pronta la roba, basta un preavviso di cinque giorni”. E soprattutto con discrezione: “Hai parlato con tuo fratello per l’altra merce?”, chiedeva il 7 novembre un agente doganale, per ricevere la risposta evasiva: “Sì, ma ne parliamo a voce”.

Dalle telefonate – che si intensificano nel 1987, l’anno dei grandi traffici – appare chiaro come l’organizzazione fosse in grado di movimentare ogni tipo di merce. Il 16 ottobre del 1987 – meno di un mese dopo l’affondamento della Rigel – Gennaro Fuiano riceve una telefonata da un tale Domenico, che ha in testa una chiara preoccupazione: “Hanno acchiappato gli autisti – spiega – gli vogliono rifilare “armi”. Una paura infondata? Non sembra, visto che il commerciante libanese Akef Anis Khoury, legato all’organizzazione, affermava senza problemi di “essere un mercante di armi internazionale” e di essere venuto in Italia “per affari di questo tipo”. Poi, la notte del 21 settembre 1987, data ufficiale dell’affondamento della Rigel, la telefonata ritenuta la smoking gun dell’inchiesta: “Senti… Il bambino è nato!”, spiega un tale Gino di Rapallo all’agente marittimo Vito Bellacosa. “E’ un maschio”, aggiunge subito dopo. Parole in codice per annunciare l’affondamento.

Natale De Grazia, mentre seguiva le piste dell’organizzazione che aveva curato l’operazione della Rigel, si imbatte poco prima di morire in un nuovo nome, questa volta per un carico ancora in corso. Il corpo forestale dello stato il 10 novembre del 1995 aveva inviato un’informativa alla procura di Reggio e di Napoli, chiedendo di avviare subito delle intercettazioni telefoniche, per cercare di bloccare la partenza della nave russa Latviya. Una fonte confidenziale era salita su quel vascello ed aveva raccolto voci dal porto che assicuravano la presenza di un carico “particolare”, probabilmente scorie nucleari.

Si prospettava per il gruppo di investigatori guidati dal capitano di corvetta la possibilità di seguire in tempo reale un carico molto simile a quello della Rigel, dimostrando l’esistenza di quei traffici, ancora attivi. De Grazia muore poche ore prima di arrivare a La Spezia, fermato da una “azione tossica”, come si legge nella perizia di Giovanni Arcudi riportata nella relazione finale della commissione ecomafie. La Latviya era intanto partita, in fretta e furia, diretta, ufficialmente, in Turchia. Nei registri navali rimane la data del suo smantellamento, il 4 dicembre 1995 e nessuna traccia dell’ultimo viaggio. Il fascicolo di quell’inchiesta, dopo qualche mese ed una perizia chiave affidata all’allora sconosciuto Mario Scaramella – poi protagonista di sconcertanti vicende legate alla Commissione Mitrokhin – venne chiuso negli archivi del tribunale di Reggio Calabria. Iscrivendosi per sempre “tra i misteri irrisolti del nostro paese”, come conclude la relazione approvata oggi dalla commissione bicamerale sulle ecomafie.

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