Fino al 10 febbraio al Teatro dell’Orologio di Roma va in scena lo spettacolo "Ss" che racconta aspetti ancora poco conosciuti dell’inferno della deportazione, soprattutto per quel che riguarda la situazione femminile nei campi di concentramento. "Le donne che venivano messe nei bordelli all'interno dei campi di sterminio agli occhi delle loro compagne di prigionia apparivano privilegiate, delle prescelte"
Sono trascorsi oltre 50 anni da quando le porte dei lager nazisti si sono aperte e i sopravvissuti hanno potuto riconquistare la libertà. Molti di loro hanno raccontato la violenza subita. Altri, invece, sono rimasti in silenzio. In questi anni la storia ha continuato a restituirci fatti e situazioni nuove, episodi rimasti per tanto tempo sommersi nel silenzio o “dimenticati” in qualche angolo della memoria collettiva. Anche l’arte ha dato e continua a dare il proprio contributo per svelarli. È il caso della rappresentazione teatrale “SS” uno spettacolo sulla sindrome di Stoccolma nei lager nazisti, in scena fino al 10 febbraio al Teatro dell’Orologio a Roma, che racconta aspetti ancora poco conosciuti dell’inferno della deportazione, soprattutto per quel che riguarda la situazione femminile nei campi di concentramento.
La storia parte da Roma, dalla presa degli ebrei al portico d’Ottavia nel 1943, e arriva fino ad Auschwitz. Luce, bambina sopravvissuta miracolosamente allo sterminio, rivive la violenza subito da lei e da sua madre nei lager con gli occhi della memoria infantile, raccontando il campo di concentramento come un parco dei divertimenti per i custodi dell’inferno. “Nella corso della mia ricerca storica – ha continuato Mariaelena – ho trovato poesie scritte da bambini nei campi di sterminio, che descrivevano altri piccoli come loro, morti nel lager, come farfalle gialle che se ne andavano via. Vedevano viali di arance, e poi rose che diventavano foglie. Quindi ho provato a descrivere quel mondo con gli occhi dei bambini che ci erano vissuti”.
Per ricostruire questo inferno di violenza fisica e psicologica, Mariaelena Masetti Zannini e Sylvia Di Ianni, che si occupa della direzione artistica dello spettacolo e delle installazioni ‘viventi’, si sono avvalse del contributo di diverse discipline, dall’arte circense alla body art. Luce, infatti, piange sangue mentre sua madre viene stuprata. E nei suoi ricordi restano vivi i blocchi di prostituzione. “Alcune delle donne deportate, solo perché avevano un aspetto più sano – spiega Mariaelena – venivano mandate nei blocchi di prostituzione. Agli occhi delle loro compagne di prigionia apparivano privilegiate, delle prescelte. Pensavano che stessero meglio. In realtà molte erano le prime a morire. Ho fatto tanta fatica a ottenere supporto storico per questo lavoro. È sconcertante che non siano state raccontate per anni certe dinamiche che riguardavano le donne all’interno dei lager”.
Su questo tema Antonella Petricone, rappresentante di Be Free – Cooperativa sociale contro tratta, violenze e discriminazione, tempo fa ha curato una mostra fotografica e una ricerca sulla prostituzione nei lager. “In Italia non ci sono studi specifici sul tema, se non qualche sporadico articolo. Io ho scritto una tesi sulle donne deportate a Ravensbruck, un campo tutto al femminile vicino a Berlino, da cui le donne venivano prelevate per essere portate nei bordelli, strutture all’interno dei campi chiamate ‘Case della gioia’. A essere reclutate erano quelle appartenenti alla categoria delle ‘asociali’: ladre, prostitute, lesbiche, prigioniere politiche. Inizialmente avevano quasi tutte origine tedesca e poi si aggiunsero anche donne di altre nazionalità, tranne quelle ebree, non reputate degne nemmeno di fare le prostitute. E anche i prigionieri maschi, a cui veniva consentita la visita al bordello come premio per il lavoro svolto, non potevano essere né ebrei né sovietici”.
Molte donne – spiega la Petricone – accettavano di entrare nel bordello con il miraggio, che poi si confermava tale, di un miglioramento della propria condizione. La maggior parte delle sopravvissute a questo genere di violenze non hanno voluto lasciare traccia. Per pudore o per vergogna. O semplicemente per non essere offese ulteriormente. “Paesi come la Germania e la Francia hanno già una raccolta storica sull’argomento, grazie anche ad alcune donne che hanno parlato delle loro esperienze come prostitute nei campi. L’Italia, invece, è rimasta indietro nello studio di questi aspetti. Molte associazioni che si dovrebbero occupare dell’argomento non lo affrontano in maniera approfondita. Probabilmente perché il nostro paese deve ancora fare i conti con il proprio passato fascista. È già stato difficile far uscire allo scoperto una storia delle donne all’interno di entrambi i regimi, fascista e nazista. Quindi ci vorrà ancora tempo perché vengano svelate e approfondite ulteriori atrocità nei confronti delle donne”.