Il libero mercato, come la democrazia, non è uno stato naturale al quale tendono le società o le economie. In assenza di istituzioni (e di efficaci meccanismi sanzionatori che le preservino), individui, tribù, partiti, aziende, banche, bande si ingegnano per trovare il modo di prevaricare il prossimo. E normalmente ci riescono.
Per questo un mercato (e una democrazia) senza regole stabili (o con regole fasulle, come in Italia) degenera in un’anarchia di stampo somalo dove potentati più o meno occulti si scontrano senza esclusione di colpi bassi. All’occorrenza si alleano per rubare alla collettività, se necessario in combutta con il potere politico.
Affinché le regole siano valide e cogenti devono essere implementate da organismi terzi e indipendenti, con poteri (e bilanci) autonomi rispetto ai controllati (e ai politici) e la capacità di comminare in fretta sanzioni severe. Solo in alcune circostanze (cioè quando gli interessi di tutti i partecipanti sono allineati) i mercati si auto-regolamentano. Ma anche le regolamentazioni possono creare disastri. Ad esempio quando si affidano a istituzioni private controlli a tutela di diritti collettivi e interessi diffusi queste tenderanno inevitabilmente ad utilizzare tali poteri per perseguire il proprio profitto.
E’ questo lo sfondo sul quale si staglia il procedimento civile contro Standard & Poor’s intentato dal Dipartimento di Giustizia americano (e a cui si aggiungeranno prevedibilmente quelli di svariati stati). Dopo 5 anni di tentennamenti (su cui gravano fondati sospetti di mordacchie politiche) le autorità hanno sparato la prima bordata e si apprestano a scoperchiare un verminaio.
Le società di rating con gli anni si sono viste attribuire un ruolo improprio da regolamentazioni mal concepite che imponevano ad esempio a fondi pensione e altri grandi gestori di comprare principalmente asset di comprovata qualità, qualità che veniva certificata appunto dalle agenzie di rating. Per di più i coefficienti di capitalizzazione delle banche venivano ponderati in base ai rating dei vari attivi patrimoniali.
Questa regolamentazione ha avuto tre effetti devastanti: 1) ha deresponsabilizzato i gestori e i consigli di amministrazione dallo svolgere il ruolo per il quale erano stati pagati, 2) ha creato l’incentivo per assegnare rating sballati o truffaldini; 3) ha indotto una concentrazione di rischi sui titoli di stato che le regole prudenziali presupponevano sicuri e quelli giudicati Tripla A con criteri opachi.
Alle regolamentazioni mal concepite si è aggiunta una sorta di licantropizzazione delle banche commerciali, spinte dai bassi tassi di interesse a inseguire rendimenti (e bonus) più alti attraverso strategie non convenzionali (per usare un eufemismo). Nei bei tempi andati le banche americane concedevano il mutuo solo a persone con un impiego e una storia personale affidabile, e per un ammontare sostanzialmente inferiore al prezzo della casa. Poi arrivarono le cartolarizzazioni. Per inciso, in Italia le introdusse Tremonti che oggi sbraita contro la finanza speculativa, così come sbraita contro l’Imu che lui stesso ha imposto e contro il fiscal compact che lui stesso ha firmato a livello europeo.
Con la cartolarizzazione dei mutui una banca concede i mutui e quasi subito li rivende sotto forma di obbligazioni garantite dai mutui a qualcun altro. In pratica ci si sbarazza del rischio che il debitore non ripaghi il debito e lo si passa a chi compra l’obbligazione. Ma come convincere il gonzo di turno? Qui entrano in scena le agenzie di rating. Sulle obbligazioni veniva chiesto il rating. S&P. Quasi sempre il responso era molto lusinghiero, spesso la mitica tripla A, cioè il massimo dell’affidabilità. Come si giustificava? In vari modi. In primo luogo guardavano ai dati storici in cui i fallimenti sui mutui erano rari proprio perché le banche erano attente a selezionare con cura i clienti. Ma questi dati erano non solo inutili, ma fuorvianti per l’analisi del rischio futuro perché era avvenuto quello che gli econometrici chiamano una rottura strutturale. Cioè le condizioni sottostanti a quei dati non esistevano più. Le banche non avevano più interesse a verificare l’affidabilità del mutuatario perché scaricavano il rischio su altri. Anzi, avevano un incentivo a prestare a chiunque respirasse, fosse anche disoccupato, alcolizzato,giocatore d’azzardo incallito o ex galeotto. Dai volumi si generavano i profitti. Ecco come si sviluppò la bolla dei mutui sub-prime.
Alla licantropizzazione delle banche si aggiunsero due altri fattori, male inseriti nei modelli di rating: 1) i prezzi delle case erano in continua ascesa, quindi i rischi di prezzi in forte flessione erano sottostimati; 2) i tassi di interesse sui mutui erano vicino ai minimi storici da diversi anni, e nelle agenzie di rating si minimizzava il rischio di insolvenza dovuto all’aumento dei tassi.
Come ciliegina sul letame sulle obbligazioni cartolarizzate si iniziò a costruire altri strati di derivati rendendo l’intera struttura del comparto obbligazionario ancora più fragile ed esposta al contagio. Bastò un soffio di vento per rendere carta straccia trilioni di dollari. Nel 2009 le obbligazioni fallite in numero e importi maggiori furono proprio quelle della classe Tripla A. Una débacle epocale.
Secondo il Wall Street Journal per tre anni il Dipartimento della Giustizia ha investigato se i manager di S&P hanno fatto in modo di indebolire le regole interne sui rating oppure le abbiano ignorate tout court. In altre parole il caso mira a verificare se si trattò di errori professionali compiuti in buona fede o di brutali conflitti di interesse visto che le agenzie di rating lucravano sulle commissioni. Insomma il governo ipotizza che vi sia stato un deliberato tentativo di frode. S&P nega qualsiasi responsabilità.
A mio avviso la questione – per quanto rilevante dal punto di vista legale e per le conseguenze sui risarcimenti e sulle multe – è irrilevante dal punto di vista sostanziale. Nel diritto romano vigeva il principio “culpa lata dolo aequiparatur” cioé una negligenza grave è equiparata al dolo perché dal punto di vista pratico è impossibile da distinguere le due fattispecie. Questo vale a fortiori nei mercati finanziari dove i criteri devono essere estremamente severi e la negligenza va considerata ipso facto dolo per la delicatezza delle funzioni fiduciarie che si espletano e perché si gestiscono soldi del pubblico.
Secondo il WSJ a S&P era stato offerto un accordo che prevedeva una multa da un miliardo di dollari, ma i vertici della società avrebbero rifiutato perché il colpo sarebbe stato mortale e comunque avrebbe aperto la strada ad altre cause. Difficilmente S&P sopravviverà nella sua forma attuale. E molti si aspettano che non sarà l’ultima agenzia a finire nel tritacarne dell’Amministrazione Obama.
Saranno in pochi, tra i professionisti onesti e competenti, a versare lacrime se le agenzie di rating (almeno come le conosciamo) dovessero finire nella pattumiera della storia.
(*) Fabio Scacciavillani è candidato alla Camera per Fare – Fermare il Declino