Una volta vinta la battaglia viene il momento di scriverne la storia da vincitori. Dunque, dopo l’uccisione di Osama Bin Laden, l’atto che ha simbolicamente chiuso un capitolo della guerra al terrorismo, la macchina narrativa statunitense si è subito messa al lavoro nella persona di Kathryn Bigelow (che con The Hurt Locker già aveva cominciato un discorso sul conflitto mediorientale) per fare della storia un racconto. Nonostante il film fosse già in sviluppo, la Bigelow, usando il libro di Mark Boal come riferimento per non “tradire la realtà storica”, dopo la morte di Bin Laden ha cambiato molto per poter raccontare la storia della donna, agente della CIA, che dopo 10 anni di caccia è riuscita a trovare l’uomo più ricercato del mondo e soprattutto raccontare cosa questo sforzo abbia richiesto per lei.
Poco meno di due anni fa, però, anche una serie tv, ispirandosi a un format israeliano, con molto meno realismo ha iniziato a esplorare la medesima materia: una donna della CIA che lavora dietro le quinte nel mondo maschile della guerra al terrore. Sebbene non vi siano conferme ufficiali, è fatto acclarato che Zero Dark Thirty e Homeland abbiano messo in scena il medesimo personaggio reale (nota con il nome in codice di Jen) dandole però due sfumature opposte.
Che la miglior televisione seriale a Hollywood abbia preso il sopravvento sul cinema in termini di creatività e successo non è più una novità per nessuno. Se n’è accorto il pubblico e quindi se ne sono accorti anche i produttori cinematografici. Per questo le produzioni più grosse e importanti somigliano spesso a certe serie tv: ne mutuano gli argomenti e di certo ne imitano il modo di fare, pensate già in serie con storie che accumulano sottotrame da svolgersi nel corso del tempo, visto che ormai gli spettatori sono più che abituati a seguire un grande racconto attraverso 4 o 5 annate.
Maya, il personaggio interpretato da Jessica Chastain in Zero Dark Thirty, è una donna durissima, della cui vita privata ignoriamo tutto. Nella prima parte del film è iniziata alla professione assistendo (non senza qualche difficoltà) alla tortura di un prigioniero. Dopo 10 anni combatte negli uffici come un uomo in un mondo di uomini, abbaia come loro, dice parolacce ma ha un’ostinazione e un’attenzione al dettaglio tutte femminili, che le consentono di fare di più e meglio dei colleghi.
Carrie, il personaggio interpretato da Claire Danes in Homeland (per il quale ha vinto due Golden Globe e un Emmy), è una donna affetta da un disturbo bipolare, ha dunque una lieve forma di malattia mentale dalla quale si cura con delle pillole e che quando esplode ne mette in risalto genio e femminilità. Nel corso delle due stagioni di Homeland Carrie si innamora, fa cose giuste e cose sbagliatissime, segue i propri sentimenti e non sempre la ragione, tuttavia proprio per questo arriva a capire più cose dei suoi colleghi. Nel mondo degli uomini Carrie si muove come un elefante senza reprimere mai la propria femminilità.
Maya e Carrie insieme sono l’atto più femminista immaginabile, la dimostrazione a mezzo audiovisivo della complessità dell’universo femminile attraverso due poli opposti e di come questo sia stato effettivamente più efficace di qualsiasi uomo in un ambito tradizionalmente riservato a loro. Dunque, oltre a raccontare cosa comporti per gli Stati Uniti la guerra al terrore, come si combatta contro un nemico invisibile che pare essere ovunque e da nessuna parte allo stesso tempo, sia Zero Dark Thirty che Homeland raccontano anche i cambiamenti del ruolo della donna all’interno dei luoghi di poteri governativi. Al contrario della protagonista di un’altra serie, Scandal (che ha un ruolo e un posto classicamente femminili), Maya e Carrie sono il prototipo basato sulla realtà di una diversa gestione delle questioni governative. Ribadiscono il mito individualista statunitense, lo stesso di Rambo (un uomo solo di noi vale 100 dei vostri), ma con un’attenzione totalmente diversa ai mutati equilibri nella società.
A cura di Gabriele Niola