La vicenda è ormai nota. L’Autorità per le Garanzie nelle comunicazioni ha dapprima autorizzato la Swg – società operante nel settore dei sondaggi politici – a diffondere, anche in periodo pre-elettorale, i risultati delle proprie elaborazioni attraverso un’apposita app per smartphones, distribuita a pagamento e, quindi, ci ha ripensato, intimandole di sospendere tale attività.
Solo un pugno di settimane separano le due comunicazioni dell’Autorità che il 14 gennaio ha detto si, in una mail indirizzata alla società e l’altro ieri, 6 febbraio, in un comunicato stampa, ha, invece, annunciato di aver ordinato alla Swg di cessare la distribuzione della propria app e, quindi, dei propri sondaggi.
Tra la prima e la seconda risposta non è accaduto assolutamente nulla se non che – come era ragionevole che fosse – la società abbia pubblicizzato la propria app, facendosi, ovviamente, forte del parere positivo ottenuto dall’Autorità per le Garanzie nelle comunicazioni. Nessun mutamento del contesto normativo o regolamentare né alcun abuso, da parte della Swg.
L’Autorità – come, d’altra parte, si spiega nel comunicato stampa del 6 febbraio – ha, semplicemente, “svolto un approfondimento” sulla questione, giungendo ad un convincimento opposto rispetto a quello originario. E’ ovvio che chiunque – Autorità inclusa – può cambiare idea ed è altrettanto ovvio che sbagliare è umano. Tanto però non basta a far dimenticare che, in questo caso, l’errore o il ripensamento riguardano l’interpretazione di una norma di legge fondamentale nello svolgimento delle consultazioni elettorali in corso e che a sbagliare, o a cambiare idea, è stata proprio l’Autorità alla quale la legge affida l’applicazione della disciplina sulla par condicio e, dunque, l’istituzione che meglio e più di ogni altro dovrebbe avere idee chiare e inequivoche sulle regole della materia.
Ma non basta. La vera ragione della gravità della situazione è rappresentata dal fatto che anche la nuova “pronuncia” dell’Autorità lascia insoddisfatti perché non chiarisce le ragioni – anche ammesso che la nuova conclusione cui si è giunti possa considerarsi corretta – del ripensamento. I dubbi restano, sono tanti ed importanti e riguardano un aspetto centrale nella disciplina della par condicio.
La legge, infatti, stabilisce che “Nei quindici giorni precedenti la data delle votazioni è vietato rendere pubblici o, comunque, diffondere i risultati di sondaggi demoscopici sull’esito delle elezioni e sugli orientamenti politici e di voto degli elettori, anche se tali sondaggi sono stati effettuati in un periodo precedente a quello del divieto”.
E’ un divieto assoluto di pubblicazione e diffusione, un divieto che, tuttavia, non concerne né lo svolgimento dei sondaggi né la commercializzazione dei risultati a gruppi politici, media ed a chiunque altro sia interessato ad acquistarli. E’, infatti, evidente che, in caso contrario, la norma avrebbe semplicemente vietato lo svolgimento di sondaggi politici nei quindici giorni che precedono il voto.
La ragione del ripensamento dell’Autorità sarebbe rappresentata – secondo quanto spiegato nel comunicato stampa – dalla circostanza che la norma “non fa alcun riferimento alla piattaforma trasmissiva attraverso la quale avviene la diffusione” e che “l’applicazione realizzata dalla Swg, nei termini in cui viene pubblicizzata, rende accessibile – previo il pagamento di un prezzo contenuto – il risultato dei sondaggi ad un pubblico potenzialmente molto vasto, con inevitabili effetti di diffusione incontrollata dell’informazione”.
Come dire che se la Swg avesse previsto dei prezzi più elevati per la vendita dei risultati dei propri sondaggi così da renderli accessibili – per ragioni di possibilità economica – ad un numero più esiguo di utenti, probabilmente, l’attività sarebbe stata ritenuta legittima.
La legge, dunque, secondo l’Autorità, autorizzerebbe una vendita al dettaglio – magari a mezzo fax o, al massimo, via mail – dei sondaggi politici purché a caro prezzo ma vieterebbe analoga vendita se effettuata a mezzo e-commerce ed a condizioni economiche ragionevoli.
Guai a negare taluni aspetti di novità e complessità della questione ed a voler fare i “primi della classe”, ma, francamente, da un’Autorità di regolamentazione ci si aspetta una risposta diversa e meglio argomentata.
Nel 2013, in piena società dell’informazione, non ci si può accontentare di sentirsi dire dall’Autorità chiamata a regolamentare e controllare il sistema dei media e delle comunicazioni elettroniche, che prezzo e canale di distribuzione di talune informazioni fanno la differenza e che ciò che è vietato via smartphones è, magari, consentito via fax o, piuttosto, che vendere un pacchetto di informazioni a 9,90 euro è vietato perché in troppi possono permettersi di acquistarlo mentre venderlo a 99,9 euro è legittimo perché, così facendo, se ne preclude l’acquisto ai più.
A prescindere dalla gravità dell’errore commesso – ammesso che la risposta originaria debba davvero considerarsi sbagliata – e dal ripensamento tardivo e senza chiedere scusa (e, soprattutto, dichiararsi pronti ad indennizzare la società e gli utenti ai quali l’Agcom ha, inequivocabilmente, prodotto un danno), l’Autorità avrebbe dovuto approfondire davvero la questione e, magari, indagare la distinzione che c’è tra il concetto di diffusione dell’informazione – da uno a soggetti indeterminati – e quello di comunicazione dell’informazione – da uno a soggetti determinati.
Se lo avesse fatto, probabilmente, sarebbe arrivata alla diversa conclusione di ritenere che se la Swg può “comunicare”, dietro pagamento”, i risultati dei propri sondaggi a chi si presenta ai propri uffici, allora deve poterlo fare anche attraverso strumenti telematici giacché, in caso contrario, il nostro Paese si troverebbe a violare – come sta accadendo in questo momento per colpa dell’interpretazione data da Agcom alla norma – la disciplina europea sul commercio elettronico che, appunto, stabilisce che si debba poter fare online ogni attività commerciale realizzabile nella dimensione “fisica”.
E’ una brutta figura quella dell’Autorità Garante delle Comunicazioni, una figuraccia che, forse, dovrebbe far tornare di attualità il tema dell’esigenza irrinunciabile che merito, competenze e curricula guidino, sempre, la selezione dei membri delle Authority e del personale del quale si avvalgono. Spesso il sistema di selezione politico, produce risultati come questo.