Nel 1993 era alla guida della Dia, la neonata Direzione investigativa antimafia che, in una nota riservata del 10 agosto 1993, informava l’allora ministro dell’Interno Nicola Mancino di come “un’eventuale revoca anche solo parziale dei decreti che dispongono l’applicazione dell’Art. 41 bis” avrebbe potuto “rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla stagione delle bombe”. Oggi, però, Gianni De Gennaro, attuale sottosegretario ai servizi di sicurezza, è sicuro di “non aver mai parlato con l’allora ministro dell’Interno di un’eventuale attenuazione del carcere duro per i mafiosi”.
Lo ha detto lo stesso ex capo della Dia, deponendo nell’aula bunker del carcere romano di Rebibbia, in qualità di teste all’udienza preliminare del processo sulla trattativa Stato mafia. A chiedere la deposizione in aula di De Gennaro era stato lo stesso gup del procedimento, Piergiorgio Morosini. Oggetto principale della testimonianza dell’ex capo della Polizia era proprio quella relazione di 24 pagine che la Dia inviò a Mancino dopo le stragi del 1992 e 1993, poche settimane prima che l’allora guardasigilli Giovanni Conso lasciasse scadere oltre trecento provvedimenti di carcere duro per detenuti mafiosi. Oggi però De Gennaro non ricorda “di essere stato informato di quella mancata proroga”, nonostante la nota della Dia da lui guidata indicasse che “la perdurante volontà del Governo di mantenere per i boss un regime penitenziario di assoluta durezza ha concorso alla ripresa della stagione degli attentati”.
Secondo il documento del 10 agosto ’93, era “derivata per i capi di Cosa Nostra, l’esigenza di riaffermare il proprio ruolo e la propria capacità di direzione anche attraverso la progettazione e l’esecuzione di attentati in grado d’indurre le Istituzioni a una tacita trattativa”. Oggi però De Gennaro ha chiarito di “non essere a conoscenza degli incontri tra il Ros e Vito Ciancimino”, ovvero quello che per la procura di Palermo è considerato uno dei momenti principali del dialogo tra Cosa Nostra e pezzi delle Istituzioni. L’ex capo della Dia ha inoltre sottolineato di non aver “mai sentito parlare del cosiddetto papello”, ovvero la lista di richieste estorsive per lo Stato che Totò Riina compilò insieme agli altri boss della Cupola. Secondo Giovanni Brusca, collaboratore di giustizia e imputato nella trattativa, il terminale finale del papello era proprio Mancino, oggi invece accusato di falsa testimonianza.
De Gennaro è stato individuato dalla procura di Palermo come parte lesa di Massimo Ciancimino (presente oggi all’udienza preliminare) , che lo avrebbe calunniato identificandolo con il signor Franco/Carlo, il misterioso personaggio dei servizi segreti che avrebbe fatto da consigliere a suo padre, l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, anche durante il periodo degli incontri con i carabinieri del Ros.
Dopo la deposizione di De Gennaro, ha fatto il suo ingresso nel bunker di Rebibbia anche Paolo Bellini, “la primula nera”, ex militante di Avanguardia Nazionale, esperto di opere d’arte e componente delle frange della destra estrema, dal 1999 collaboratore di giustizia. Anche Bellini è stato sentito su richiesta esplicita del gup Morosini. Nel 1993 avrebbe infatti contattato Nino Gioè, uno degli stragisti di Capaci, proponendo a Cosa Nostra di recuperare per lo Stato alcune opere d’arte rubate in cambio del trasferimento di alcuni boss mafiosi nel carcere di Pianosa. “Dopo la morte di Falcone ero schifato, proposi dunque al maresciallo dei carabinieri Tempesta d’infiltrarmi in Cosa Nostra, ma dopo aver contattato Gioè, Tempesta mi disse che lo scambio non si poteva fare”. Gioè, fedelissimo di Riina e di Brusca, si suicidò in carcere nel luglio del 1993 lasciando in una lettera espliciti riferimenti a Bellini e ad una sua possibile appartenenza ai servizi segreti.