Alcuni uomini potrebbero vivere come fanno tanti altri del mercimonio della fama e della gloria acquisite in epoche lontane. Il fatto è che alcuni di essi fortunatamente non si accontentano del loro sgargiante declino e allora si rimettono coraggiosamente e continuamente in gioco e si lasciano travolgere con grande dignità dall’entusiasmo coinvolgente di musicisti più giovani ma bravi ed agguerriti. Diciamolo subito, qui si sta parlando di uno che ha letteralmente fatto la historia de la musica rock, uno che ha dato lezioni a tutti negli anni in cui la formidabile scena hardcore punk californiana si è evoluta, i primi Ottanta. Mike Watt è l’uomo che insieme al povero D. Boon ed al fido George Hurley ha tracciato l’epopea dei Minutemen, una delle più incredibili band di tutti i tempi, una band che poteva essere la tua vita, gli autori di quel “Double Nickels On the Dime” (SST, 1984) che dovrebbe essere inserito a buon diritto nei programmi della scuola dell’obbligo. Per contemplare retrospettivamente la loro grandezza è consigliabile un’occhiata ad un bel documentario del 2006 diretto da Tim Irwin, intitolato “We Jam Econo: The Story of the Minutemen”. All’interno interviste a molti dei grandissimi dell’epoca come Henry Rollins, Ian MacKaye, Richard Hell, Jello Biafra, Grant Hart, John Doe, Thurston Moore.

Dopo il tragico incidente d’auto in cui perse la vita l’amico D. Boon nel 1985, Mike Watt ha tenuto duro: ha dato vita ai fIREHOSE e poi ad una lunga carriera costituita da una discografia sterminata e mille side projects e collaborazioni. Tanto per intenderci: quando ha lavorato a “Ball-Hog or Tugboat?”, il primo colossale doppio LP uscito a proprio nome nel 1995, ha radunato uno stuolo talmente ampio di pezzi grossi dell’epoca che se scorri la lista pare persino eccessiva: i fratelli Kirkwood dei Meat Puppets, Frank Black dei Pixies, Mark Lanegan degli Screaming Trees, Mike D ed Ad-Rock dei Beastie Boys, Pat Smear dei Germs, Flea dei Red Hot Chili Peppers, Henry Rollins, Sonic Youth e tantissimi altri. E di chi poteva essere l’artwork se non di Raymond Pettibon? In pratica quel disco, peraltro nemmeno riuscitissimo malgrado tutto, potrebbe essere tramandato ai posteri come il “We Are the World” dell’alternative rock americano.

Ecco, un uomo così, che può smuovere in quattro e quattr’otto tutto il gotha della musica mondiale, è ancora un gentiluomo talmente umile e fedele ai valori ed allo spirito libertario ed egualitario dell’hardcore che ti guarda negli occhi, ti stringe la mano e ti ringrazia di cuore per essere andato a sentire il suo concerto: ma come Mike, non scherziamo eh, se c’è uno che deve essere ringraziato quello sei tu, fammi il piacere… La prima volta che ho incontrato Mike Watt insieme a Stefano Pilia e ad Andrea Belfi è stato nel 2009, al Locomotiv. Stefano Pilia è un chitarrista molto espressivo ed originale il cui percorso qualche anno fa ha trovato coronamento con l’ingresso in pianta stabile nella riunita formazione dei Massimo Volume. Il veronese Andrea Belfi, invece, ora di stanza a Berlino, è uno dei migliori batteristi in circolazione ed oltre che per i suoi lavori solisti elettroacustici lo ricordiamo rotolante e trascinante nel contesto rock degli ottimi Rosolina Mar.

Nel frattempo i tre hanno messo in piedi una vera e propria band dal nome poeticamente ed orgogliosamente italiano, Il Sogno del Marinaio, ed in tre giorni hanno registrato “La busta gialla”, il loro disco d’esordio. Mike Watt è nato in Virginia nel 1957: la famiglia da parte di madre è di origini italiane mentre il padre era un marinaio della U.S. Navy. Ecco spiegate un po’ di cose ma non è tutto. Nella musica del trio, oltre all’inestimabile patrimonio portato in dote dall’ex Minutemen, si sente un grosso legame spirituale e musicale con una band che ha fatto di quell’immaginario marinaresco un proprio tratto distintivo ed una bandiera nel corso dei Novanta ovvero i June of 44, gli indimenticabili autori di “Sharks and Sailors”, “Tropics and Meridians”, “Engine Takes to the Water”, tutti titoli che tradiscono inequivocabilmente una comune origine. Ne “La busta gialla” si sente un grosso feeling con quell’ormai proverbiale asse Louisville Chicago che tante grandi cose ha prodotto dagli Slint ai Rachel’s agli Storm and Stress sino agli esotici tropici e meridiani tracciati sulle mappe, dall’equatore ai poli, dagli ultimi June of 44 di “Anahata”, dal supergruppo molto davisiano degli Him, dalla Chicago Underground di Rob Mazurek che ai giorni nostri non a caso è diventata a tutti gli effetti tropicalista con il trasferimento a Sao Paulo. In un brano come “Funanori Jig” si percepisce moltissimo questa parentela ed anche il drumming di Belfi ricorda un po’ quello di Doug Scharin e un po’ quello di Kevin Shea che sono stati i batteristi per eccellenza di quella stagione: il tutto ad un certo punto si tramuta in qualcosa che pare un ibrido tra June of 44 e Battles. “Messed-up Machine” evoca un ponte radio con la tolda del veliero dei Rachel’s di “The Sea and the Bells”. “Partisan Song” è emblematica: inizia come un pezzo dei Massimo Volume, sfocia nei Come di Thalia Zedek e si tramuta con l’ingresso dei fiati negli ultimi Sao Paulo Underground o nel Chicago Underground Duo di “Boca Negra”. E quando inizia il giro di basso della conclusiva “Punkinhed Ahoy!” diresti per un attimo di essere ripiombato ai tempi di “Double Nickels”. History Lesson, part III. A buon intenditor…

Una settimana fitta di concerti internazionali al Freakout Club di via Zago 7/C, sotto il ponte di Stalingrado: giovedì 14 febbraio i noti post-rockers giapponesi Mono, venerdì 15 Il Sogno del Marinaio e domenica 17 un gruppo punk a dir poco storico come gli UK Subs.

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