Avevo 14 anni ed era maggio quando in un noioso pomeriggio la tv manda un sottotitolo: “Attentato a Palermo al giudice Falcone”. E’ stato il primo funerale a cui ho partecipato. Era l’estate di quello stesso anno quando uccisero Paolo Borsellino in via d’Amelio. E’ stata la prima manifestazione a cui ho partecipato.
Era tempo di vendemmia, quando uccisero Padre Puglisi. Tuonano ancora nella mia mente le parole di Giovanni Paolo II “Lo dico ai responsabili. Convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!”
Era primavera quando per tre anni la mia città ha detto no alla mafia, riaprendo le vie del centro storico e scendendo in piazza per la propria dignità, pronunciando la parola mafia in modo distinto, senza bisbigliare.
Forse iniziava l’inverno quando Maria Falcone mi chiese di scoprire la targa che dedicava l’aula magna del mio liceo al fratello Giovanni. “Deve farlo un giovane” disse.
Sicuramente pioveva il giorno che sono partito per studiare a Milano; emigrato come tanti della mia classe.
Poi solo foschia fatta da pagine di libri di diritto e da una buona professione di avvocato a Milano.
Poi arriva il vento che ti ricorda che hai scelto giurisprudenza per fare il pubblico ministero e tornare a Palermo. E allora ci pensa il sole a riscaldare le sudate carte per preparare un esame e per non farti troppo pensare alla carriera che hai lasciato.
Falcone, Borsellino e tanti altri mettono noi stessi in faccia alla realtà del nostro essere uomini: della nostra dignità di uomini. Hanno insegnato a molti della mia generazione che le cose devono e possono cambiare: che sta a noi farlo, oltre lo smacco dell’indifferenza.
Non è sacrificio (nel senso di rendere sacro) combattere e fare bene il proprio lavoro. E’ un gesto infinitamente umano, come un atto d’amore: per sé e per gli altri.
Francesco Stocco