Nonostante siano passati vent’anni, ricordo chiaramente quel giorno. 23 maggio 1992, la terra siciliana si macchiò del sangue degli onesti, dei giusti. Io ero solo un bambino di nove anni, ma ricordo bene l’atmosfera che si respirava nel nostro strano Paese in quel delicato periodo storico. Con la mia famiglia eravamo in campagna, un sole cocente tipico di una primavera avanzata, riscaldava l’auto di mio padre. Dalla radio della macchina giunsero alle mie orecchie le notizie dell’attentato a Giovanni Falcone, a sua moglie Francesca Morvillo e agli uomini della scorta. Ricordo la sorpresa di mio padre, da palermitano qual è, la sua reazione a ciò che era successo fu amarissima. Come spesso accade l’inevitabile si concretizza e ciò che in genere pensiamo possa non realizzarsi mai, si verifica. La vita sembra avere più immaginazione di noi uomini ed anche quella volta la realtà superò la fantasia.
Ci vollero cinquecento chili di tritolo per eliminare un uomo troppo scomodo. Prima di arrivare a questa estrema soluzione del “problema Falcone”, le avevano provate tutte. Delegittimandolo, infangando la sua reputazione ed il suo operato. Puntualmente il giudice incassava, schivando i colpi bassi e rispondendo sempre alle accuse che gli venivano fatte con intelligenza e grande senso dello Stato. Con dignità Falcone rimandava al mittente le innumerevoli ingiurie che aveva subito, senza scomporsi più di tanto ma inevitabilmente soffrendone molto. Pacatamente il giudice, anche quando spesso si sentiva attaccato, perseverava con la sua condotta irreprensibile, tesa sempre a rispondere con i fatti, con le azioni concrete, a chi cercava in tutti i modi di ostacolarlo mistificando il suo lavoro e i grandi traguardi raggiunti nella lotta contro la criminalità organizzata.
Falcone fu un uomo troppo spesso solo, abbandonato al suo destino di morte e come lui anche l’amico e collega Paolo Borsellino. Fatti saltare in aria non solo dalle bombe di Cosa Nostra ma anche da uno Stato complice di non averli tutelati e salvaguardati dalla violenza sanguinaria dei così detti “uomini d’onore”. Falcone nemico giurato della mafia, stimato ed apprezzato all’estero, in Italia venne troppe volte ostacolato e non apprezzato mai a sufficienza per le sue grandi intuizioni investigative e per il metodo efficace da lui costruito per opporre al potere mafioso uno Stato efficiente e ben organizzato nella lotta al crimine organizzato. Oggi, a vent’anni di distanza, l’Italia ricorda quest’uomo. Con un certo imbarazzo, ma anche forse con un certo opportunismo, tipico di chi vuole mettersi in buona luce elogiando il lavoro ed il sacrificio compiuto da altri.
Falcone fu ucciso dall’invidia, dall’indifferenza di chi poteva ma non ha voluto veramente proteggerlo e garantirgli tutti gli strumenti migliori che uno Stato democratico e civile, dovrebbe assicurare a chi porta avanti una battaglia così difficile, pagando questo enorme sacrificio con la propria vita. Un uomo ucciso da poteri complici, da mandanti che avevano tutto l’interesse che la sua morte, non solo eliminasse per sempre il magistrato, ma cancellasse anche il suo metodo, il suo tecnicismo indispensabile per contrastare efficacemente un fenomeno così radicato nella nostra società, come quello mafioso. Un metodo, quello di Falcone, che voleva combattere Cosa Nostra in tutte le sue sfaccettature: economiche, politiche, ma anche e soprattutto culturali e sociali.
La mafia prima di tutto è una mentalità, un modus operandi, un relazionarsi alla vita e agli altri tipico di chi nasce e cresce in determinati ambienti siciliani malfamati e non. Falcone conosceva benissimo questa mentalità, era cresciuto alla Kalsa quartiere di Palermo situato nel centro storico del capoluogo siciliano. Il giudice palermitano conosceva le leggi non scritte della strada, più di chiunque altro sapeva interpretare le logiche spesso ambigue e subdole di un sistema potentissimo come Cosa Nostra. Fu il primo a capire quanto peso ebbero realmente le testimonianze del più importante collaboratore di giustizia, Tommaso Buscetta. E fu proprio grazie alle sue rivelazioni che i giudici cominciarono ad avere un’idea abbastanza chiara della struttura di Cosa Nostra e di cosa veramente fosse.
Cosa Nostra da anni ha cambiato strategia, non uccide più. Ha capito che è molto più conveniente agire nel silenzio, lontano dai riflettori dei media e dell’opinione pubblica. È in questo silenzio che la mafia prospera e continua a lucrare. Per questo, ricordare oggi Giovanni Falcone, sembra non essere più soltanto un dovere di chi per mestiere ricopre ruoli istituzionali. Ricordarlo, significa soprattutto, essere pienamente cittadini di questa Repubblica e porre l’attenzione sul reale cancro di cui l’Italia deve liberarsi se vuole aspirare a diventare un paese più onesto e civile. Testimoniare ciò che ha fatto Falcone diventa dunque, oggi più che mai, un obbligo morale per tutti gli italiani che, nonostante le mille contraddizioni, amano visceralmente, dalla testa ai piedi, questa ricca e povera patria.
Michele Amoroso