Saranno i custodi giudiziari Mario Tagarelli, Barbara Valenzano, Emanuela Laterza e Claudio Lofrumento a provvedere alla vendita dell’acciaio sequestrato all’Ilva di Taranto dalla Guardia di finanza il 26 novembre 2012. Lo ha deciso, con un’ordinanza depositata nelle scorse ore, il giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco. Secondo le poche indiscrezioni trapelate, il giudice ha accolto la richiesta formulata dalla procura della Repubblica ionica e ha disposto la vendita di coils, tubi e bramme sigillate dai finanzieri perché considerati “frutto del reato”, conseguenza diretta dell’attività illecita e nociva dello stabilimento siderurgico del Gruppo Riva. Toccherà quindi ai quattro custodi, nominati dal gip Todisco il 26 luglio in occasione del sequestro degli impianti, vendere 1 milione e 700 mila tonnellate di materiale del valore di circa 800 milioni di euro (e non 1 miliardo come invece l’azienda aveva lamentato fino a qualche tempo fa).
La richiesta della procura e quindi la decisione del gip Todisco sarebbero basate su una relazione che i custodi avrebbero consegnato ai magistrati spiegando che esiste il concreto rischio che la giacenza del materiale sui moli e nei magazzini della fabbrica possa comportare l’alterazione del bene sequestrato e quindi causarne una perdita di valore. Il provento della vendita dei prodotti tuttavia, rimarrà sotto chiave e non potrà quindi essere utilizzato in alcun modo dall’azienda. La commercializzazione dell’acciaio, tuttavia, risolve una serie di problematiche non di poco conto. Il suo deterioramente e la relativa perdita di valore economico in caso di vendita, infatti, colpirebbe sia l’Ilva che le sue presunte vittime. Per la prima, infatti, se la Corte Costituzionale dovesse stabilire la legittimità della legge “salva-Ilva” (e ieri è stata dichiarata l’inammissibilità dei ricorsi presentati, ndr) e quindi ammettere la commercializzazione dell’acciaio sequestrato, l’azienda non si ritroverebbe a vendere materiale già deteriorato. Per le parti lese, tra le quali anche il ministero dell’ambiente, il ricavato della vendita potrebbe garantire il pagamento del risarcimento in caso di condanna definitiva dell’azienda.
Queste, in ogni caso, sono le conseguenze che l’atto produrrà in futuro. Tuttavia esistono una serie di altri ostacoli che, di fatto, vengono superati immediatamente. In primo luogo la possibilità per l’Ilva di soddisfare le richieste di acciaio che, secondo l’azienda, erano già pervenute dai vari clienti e che a causa del blocco ordinato dai magistrati rimanevano inevase. L’intenzione dei custodi giudiziari, infatti, potrebbe essere proprio quella di scorrere l’elenco delle richieste già arrivate all’ufficio vendita dell’azienda e soddisfare i clienti scongiurando così il rischio di perdita di clienti, magari fidelizzati, e di ulteriori commesse. Eppure su quelle richieste un primo scontro tra custodi e azienda si è già consumati i primi giorni di novembre quando i consulenti del giudice chiesero all’Ilva di fornire informazioni in merito e l’azienda, tramite l’avvocato Francesco Brescia, si rifiutò di fornirle per espressa volontà della società specificando che quelle informazioni sarebbero in seguito state consegnate direttamente alla Procura.
Ora l’Ilva non ha più scusanti se davvero vuole soddisfare le richieste dei clienti. Non solo. La vendita dei prodotti avrà come conseguenza immediata quella di liberare i piazzali e i vari moli nei quali al momento sono conservate le tonnellate di tubi e coils. Un punto sul quale l’Ilva era intervenuta spesso lamentando le difficoltà dell’azienda di poter conservare il nuovo materiale che dal 3 dicembre, grazie alla legge 231/2012 che ha restituito di fatto la facoltà d’uso degli impianti, l’azienda è legittimata a produrre. Il rientro in pieno possesso dei piazzali potrebbe consentire nuovamente l’utilizzo a pieno regime anche della cosiddetta “area a freddo”. L’azienda, pertanto, sarebbe a quel punto tenuta a ridurre il numero di lavoratori in cassa integrazione in deroga che dal primo gennaio sono 1393. A questi vanno poi sommati gli operai in cassa integrazione per crisi di mercato da metà novembre.