Non sono un teologo, né un vaticanista, non so nulla delle dinamiche della curia, né dello Ior, ad essere onesto non ho la più pallida idea se Giovanni Paolo II e Benedetto XVI siano stati o meno due grandi Papi. Gioco a mettermi nei personaggi, ad abitarli, a raccontarli dal loro interno. Cominciamo…
Il mio nome è banale, sono uno dei tanti nessuno, che non lascerà mai alcun segno nella storia, uno che gli altri non guardano, ma che si sente osservato da tutti, guardo dalla finestra della comunità terapeutica dove vivo e mi chiedo se avrò la forza e la voglia di andare avanti. In me c’è qualcosa che non va, sono diverso, per fare la cosa più semplice devo faticare mille volte più degli altri. Mi vergogno del mio aspetto fisico, di non essere forte, svelto, intelligente, di non riuscire a stare al passo, di non potermi innamorare della stessa persona di cui si innamorano gli altri. Sapere che non dipende da me non allevia la mia vergogna. La vergogna si genera da quello che appare non da quello che si è. Allora l’apparire deve essere camuffato, e se la maschera non funziona ci si può escludere dal mondo.
Mi chiamo Karol Wojtyła all’imbrunire, guardo dalla finestra i giardini vaticani deserti, sono sempre stato un uomo forte, sportivo, carismatico. Da venti anni sono Giovanni Paolo II questo mi impaurisce e mi inorgoglisce, ma progressivamente il mio vigore sta diminuendo, sono malato, gonfio per i farmaci, tremante. Ma un Papa è un Papa, non è uno qualunque, la mia immagine non appartiene solo a me, non è solo privata, è di tutti i fedeli, di tutti i giovani che accorrono numerosi al Giubileo. Chiedo aiuto al Signore lacerato dal dubbio, poi decido, andrò avanti il più possibile.
Sono passati cinque anni dal grande Giubileo, il mio amico Wojtyła si è spento mostrando a tutti un coraggio inusitato, io mi chiamo Joseph Aloisius Ratzinger, ho 78 anni e sono diverso da lui, non ho mai avuto la sua forza fisica, sono un teologo e mi chiedo già dal giorno della mia elezione se ce la farò a portare avanti la mia missione. In Karol la sofferenza era impressa nel volto, nel corpo, nel tremore delle mani, ma la mia sofferenza non si vede apertamente, quindi quello che sto per fare può sembrare un atto di viltà. Senza i segni della sofferenza il tribolare è interno, e spesso ciò che non si vede non viene creduto. Anche io mi rivolgo al Signore e decido di fare un gesto inusuale, che anche nel suono della parola risulta inconcepibile per un Papa: dimissione.
Queste immagini di uomini simbolo si fondono con la mia di uomo piccolo, comune, banale e mi sembra che attraverso loro il mio destino cambi. Vedo la figura sofferente, affaticata, tremante, di Giovanni Paolo II mentre si trascina per aprire la porta santa della Basilica di S. Pietro nel grande Giubileo, quell’uomo un tempo vigoroso che non si vergogna di trascinarsi, di essere rialzato e sorretto. Non si vergogna di apparire fragile, non si vergogna…
Subito dopo un’altra figura, apparentemente opposta, ma per me simile, un altro Papa, Benedetto XVI. Mi chiedo quanti uomini siano in grado di pronunciare queste poche parole: “Il vigore del corpo e dell’animo, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato.” Riconoscere la mia incapacità.
Pian piano immagini e parole mi risanano, se questi uomini simbolo hanno il coraggio di mostrarsi per quello che sono, lo posso fare anche io, posso riconoscere la mia incapacità senza vergogna. Qualunque sarà il giudizio della storia questi due uomini sono entrambi grandi per me, mi permettono di abbandonare la maschera e di trasformare la vergogna in orgoglio.