E’ estate, fa caldo. Insieme ai miei nonni, mia madre e mia sorella sbarco ad Ischia, dopo un lungo viaggio da Roma. E’ l’estate del ’92 e mia sorella ed io siamo solo due bambini, due gemelli di sette anni, con i pantaloncini corti e le magliette Disney. Mia madre, invece, ha trentadue anni. E’ ai due terzi della sua vita, ma in quel momento nessuno lo sa. L’estate del sud si riflette nei suoi Ray-Ban beige, simbolo della sua indipendenza e che, in realtà, un po’ stonano con il serio tailleur da giornata lavorativa.
“Un magistrato non deve solo essere equilibrato ed imparziale, deve anche dare l’impressione di esserlo”, ci spiegava a volte – soprattutto nelle situazioni difficili, quando le era un po’ più faticoso attenersi a quella regola: momenti che capitavano, fra la cura dei figli, i frequenti traslochi, i mille impegni. D’altronde noi eravamo sempre in cima alla lista e così, se accadeva di poter andar via anche solo pochi giorni, si impacchettava l’essenziale (che nel suo caso erano per lo più fascicoli) e si partiva. Come quel week-end di fine maggio.
Lo stesso giorno anche Falcone parte da Roma alla volta del sud. E’ il suo ultimo viaggio, ma in quel momento in pochi lo sanno. Un uomo, specialmente se di origini meridionali, conosce la dolcezza delle prime giornate calde in terra di mare. Il sole che basso si frammenta sulle onde calme, il rosmarino che s’agita, lento, incorniciano la figura di mia madre: la sto guardando perché, appena sull’uscio della casa dei parenti di Ischia, i bagagli ancora appoggiati per terra, ha risposto ad una chiamata sul cellulare. Sono ipnotizzato, non riesco a smettere di fissarla. Non è una normale telefonata, c’è qualcosa di molto importante che sta succedendo. Anche se so che non avrò risposta, non riesco a evitare di chiedere “che succede?” alla nonna e alla sorella. Improvvisamente l’aria salmastra mi soffoca: tutto ciò che sconvolge mia madre ha il potere di sconvolgere anche me e, non saprei dire come (forse dai suoi gesti, forse dai monosillabi), percepisco fortissimo il suo shock. L’apprensione pietrifica tutto per un tempo infinito.
In realtà la telefonata dura solo pochi secondi. Appena mia madre si riavvicina non ho neanche il tempo di chiederle cosa sia successo:
“Devo andare a Palermo, subito”, dice.
“Perché, mamma? Che è successo?” chiediamo in coro, con l’agitazione moltiplicata da quelle parole, ma soprattutto dal fatto che non lasci fuori dalla comunicazione le sue preoccupazioni, quelle che non ci riguardano, come al solito. Normalmente ci avrebbe sorriso ed avrebbe detto solo “entriamo”, anche se in modo un po’ distratto, pensando chiaramente ad altro. O, al limite, ci avrebbe preso da parte e ci avrebbe raccontato, con tono rassicurante, che la mamma doveva fare un salto a Palermo.
“Hanno ammazzato Falcone”, al contrario, ci spiazza. La nostra inquietudine, anziché diminuire, aumenta:
“E chi era?”
“Un giudice importante”, tenta allora di farci capire. Un giudice, come lei. Sono in preda al panico: “Ma perché? E chi è stato ad ucciderlo?”
“I mafiosi sono stati!” tuona – ma la voce è spezzata e lampi di sdegno e d’ira trapassano gli occhiali scuri e qualsiasi tentativo di proteggerci è ormai saltato.
Quella volta non ci furono filtri. E, forse, la ragione è che sapeva quanto ciò riguardasse anche noi. Inconsapevolmente, aveva associato per sempre l’indignazione e il bisogno di reagire alla parola “mafia”, che noi non conoscevamo ancora. Il mio ricordo si interrompe: mia madre non entrò nemmeno in casa, raccolse la sua valigia e partì; la rivedemmo solo giorni dopo, a Roma. Certe volte, però, ripensando a quella sera di maggio di vent’anni fa, mi sorprendo a scrutare le immagini dei funerali di Falcone, cercando di intravederla nel mare di ombrelli: non ci sono mai riuscito.
Marco Melis