La torta è sempre lì, allo stesso posto, offerta dallo Stato. Quest’anno le fette sono la metà, ma gli ospiti ristretti a un club esclusivo. 91 milioni anziché 180 sono i soldi destinati al finanziamento pubblico ai partiti nel 2013, in barba al referendum che li aveva aboliti ormai 20 anni fa. La loro distribuzione sarà regolata dalla nuova legge approvata nel luglio 2012: il 70 per cento (pari a euro 63.700.000) è corrisposto come rimborso delle spese per le consultazioni elettorali e contributo per l’attività politica. Il restante 30 per cento (pari a euro 27.300.000) è erogato a titolo di co-finanziamento (pari a 50 centesimi per ogni euro ricevuti a titolo di quote associative e finanziamenti da parte di persone fisiche o enti). La crisi si è fatta sentire e i soldi sono scesi rispetto al passato: dal 1994 al 2008 le tornate elettorali sono costate oltre 2 miliardi e 253 milioni di euro. L’ultima legislatura si è attestata sopra i 503 milioni di euro a fronte di spese accertate di poco più di un quinto, circa 110. Mentre la prossima promette 455 milioni, se durerà tutti e cinque gli anni.
Ma a chi andranno questi soldi? Fino allo scorso luglio bastava l’1% per accedere ai finanziamenti, ora le regole sono molto diverse: senza un parlamentare eletto (su base nazionale alla Camera, regionale al Senato) niente denaro sonante. In pratica, niente più casi “Sinistra arcobaleno”, la coalizione che la scorsa legislatura rimase fuori dal Palazzo non raggiungendo il quorum, ma che percepì comunque 9 milioni di rimborso elettorale. Questa volta a dividersi la torta saranno verosimilmente dai cinque ai sette partiti e al Senato potrebbero essere solo tre o quattro formazioni a mangiarsi tutta la porzione. La spiegazione in fase legislativa è stata quella di voler evitare la proliferazione di sigle che formano partitini solo in virtù del recupero crediti elettorali. In realtà, come ha spiegato senza mezzi termini il tesoriere democratico Antonio Misiani “ai partiti i rimborsi servono altrimenti chiudono”. Perché la campagna elettorale alla fine impegna una piccola parte degli introiti, con gli altri soldi si garantiscono le spese vive, come gli stipendi dei dipendenti. Solo un movimento liquido, tipo il 5 Stelle, senza sedi né dipendenti, può permettersi di annunciare il rifiuto.
“Dopo una complessa road map di riforme naufragate, la montagna ha partorito un topolino – dice Fulco Lanchester , professore di Diritto costituzionale a La Sapienza di Roma, riferendosi al governo di Mario Monti – il vero funzionamento di questo tipo di meccanismi dipende dai controlli che si fanno dall’esterno. E in questo caso mi sembra tanto una norma all’italiana”. Infatti nella nuova legge è prevista l’istituzione di una Commissione per la trasparenza e il controllo dei rendiconti, che si insedierà alla Camera dei deputati e sarà composta da cinque membri di cui uno designato dal primo presidente della Corte di cassazione, uno dal presidente del Consiglio di Stato e tre designati dal presidente della Corte dei conti. Istituzione, quest’ultima, che avrebbe potuto controllare autonomamente, ma che i partiti hanno osteggiato preferendo una soluzione ad hoc. Confermate, invece, le società esterne di revisione dei bilanci iscritte nell’albo Consob che verificheranno i conti finali dei partiti. Toccherà a loro stilare una relazione che poi dovrà essere trasmessa alla Commissione di controllo. Chi dovrà essere iper trasparente, invece, è il tesoriere: avrà l’obbligo di pubblicare redditi e patrimonio anche della moglie e dei figli a carico. Quelli che “sbagliano” non potranno più sottoscrivere i bilanci del partito per almeno cinque anni. Basterà a frenare altri casi Lusi e Belsito?
da Il Fatto Quotidiano del 16 febbraio 2013