Non le ho spente le candeline quel giorno. Non per protesta o militanza civile. Solo perché non mi sembrava il momento. Così, tra gli abbracci di circostanza ed il calore degli amici più stretti, mi sono ritrovato iniettato nella storia. Fino a quel momento anche l’Italia degli Andreotti e dei Craxi come il prorompente protagonismo del giudice Di Pietro sembravano spezzoni di film proiettati sui telegiornali monolitici di inizio anni ’90. Non era questione anagrafica. Vent’anni, in fondo, sono il confine tra l’adolescenza spensierata e disinteressata e la prima vita adulta. Quello spazio ancora indefinito dove desideri che le domande incontrino risposte attendibili; dove finalmente abbandoni la ricerca dell’autorità salvifica per cercare affannosamente l’autorevolezza. Per questo due mesi prima, immerso nel silenzio surreale di un pomeriggio di primavera, avevo notato il grande divario tra l’autorità e l’autorevolezza. Le lacrime di una donna che chiedeva giustizia e conversione sembravano la risposta più attendibile alla grande domanda posta dal boato del 23 maggio: “Mi riguarda ? “

Il boato mi aveva, ci aveva … fatto sentire più deboli, più indifesi. Incapaci di prevedere. Impreparati a quel tipo di dolore collettivo. Non era più cosa loro. Era “cosa nostra”. Non nell’accezione mafioso-terroristica dei Riina e dei Liggio. Era anche “nostra” quella “cosa”. Quella strada squarciata. Quelle famiglie fiere ma distrutte nel dolore. Quei drappi tricolore sulle bare e lo sguardo silenzioso dell’amico di Giovanni Falcone. Senza falsi formalismi e ipocrite solennità quella donna ci ha detto: sì ! Ci riguarda.

Ci stava gridando senza ipocriti cerimoniali ma con solenne autorevolezza che solo un “Noi” poteva arrestare la decadenza di un popolo apparentemente rassegnato al malaffare.

L’autorevolezza, metteva in fuga l’autorità in doppio petto che davanti a milioni di spettatori sgattaiolava impaurita tra la folla adirata. Ecco la differenza tra quel 23 maggio e quel 19 luglio: giorno del mio 20° compleanno. Un lento percorso di migrazione dalla platea degli spettatori all’arena dei protagonisti. Uomini e donne che non si arrendono allo status quo ma sono ancora capaci di illudersi che Falcone, Borsellino, Livatino, Chinnici, Cassarà, Latorre, altri ed altri ancora siano stati interpreti di una storia che si ripete ogni minuto, ogni ora, ogni giorno, ogni volta che riusciremo a dire di no o perlomeno tenteremo di dire di no alle lusinghe del potere che prevarica e rende schiavi ed uccide. Al potere che uccide le coscienze e la dignità. Dire no anche oggi, quando dopo più due decenni i sentieri misteriosi della vita ti hanno portato a sfiorare quel potere ed a sentirne l’odore. Non le ho spente le candeline quel giorno. Quel giorno non è più l’anniversario della mia nascita. E’ l’anniversario della nascita di un “Noi”.

Bruno Calò

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