Quindici anni dopo il grido d’allarme di Zeman, è il tecnico dell’Arsenal Wenger a rilanciare: “Nel calcio non si fa abbastanza per combattere il doping, senza i controlli incrociati tra sangue e urine è impossibile sapere se un atleta si è dopato”. Il testimone è stato raccolto dal presidente della Wada (agenzia mondiale antidoping) Fahey, che pochi giorni fa in una conferenza stampa a Londra ha pronunciato parole di fuoco. Stilettate arrivate sino a Blatter, boss della Fifa, che ha a sua volta annunciato come a partire dai Mondiali di Brasile 2014 anche per i calciatori sarà introdotto il passaporto biologico. “Nel 2014 la Fifa spenderà 2,5 milioni di dollari per la lotta contro il doping. Il nostro obiettivo è ottenere i passaporti biologici di tutti i giocatori che partecipano ai Mondiali 2014”, ha dichiarato D’Hooghe, responsabile del Comitato etico della Fifa.
Una rivoluzione copernicana che però, come spiegano gli esperti, potrebbe essere difficile da mettere in atto in così breve tempo. Sedici mesi non sono infatti sufficienti. Il passaporto biologico è l’archivio dei parametri ematici dell’atleta nel corso del tempo: se questi presentano valori anomali, portano alla squalifica dell’atleta anche senza che sia riscontrata una sostanza dopante. Uno strumento introdotto nel ciclismo nel 2007 e nell’atletica nel 2010, che ha contribuito anche a squalifiche clamorose come quella di Schwazer. E che permette di rilevare l’assunzione di sostanze dopanti come Epo e vari ormoni della crescita anche in mancanza della pistola fumante della positività ad un singolo controllo. Uno strumento finora mai perso in considerazione dal calcio, da sempre un’oasi protetta per quello che riguarda i controlli antidoping.
Lo ha spiegato chiaramente il capo della Wada Fahey: “A differenza di altri sport, un calciatore può giocare un’intera carriera senza che sia sottoposto a un controllo. E soprattutto nel calcio non sono effettuati abbastanza controlli per cercare l’Epo”. L’unico modo di rilevare l’Epo (un ormone che regola la produzione di globuli rossi e quindi la quantità di ossigeno che circola nel sangue), è tramite passaporto biologico o controllo incrociato sangue urine: quello che il calcio non fa. Se nel 2011 ai Mondiali di Atletica di Daegu il 14% dei campioni incrociati di sangue e urine analizzati è risultato positivo, nello stesso anno la Fifa ha condotto oltre 28 mila test sulle urine o sul sangue dei calciatori (e quindi non necessariamente incrociati) e solo 19, quindi lo 0.07 percento, hanno riscontrato positività ad anabolizzanti o ormoni. Di questi ben 5 riguardano la nazionale femminile nordcoreana, e solo 14 calciatori di serie minori dall’Europa al Sud America.
Mentre 40 dei 28mila campioni, lo 0,14 percento, sono risultati positivi a droghe ricreative come cannabis o cocaina. Tutto questo mentre nel ciclismo i grandi giri hanno dovuto riscrivere la storia degli ultimi dieci anni a causa delle squalifiche. E nell’atletica si è avuto già il primo caso di atleta squalificato esclusivamente per anomalie di valori riscontrate nel passaporto biologico. Nel calcio il caso più famoso di doping resta ancora quello di Diego Maradona, risultato positivo alla cocaina ai Mondiali del 1994. In Italia, dal 2009 al 2011 i controlli antidoping nel pallone sono passati da quasi 7mila a meno di 4mila. Nel 2011 sono stati effettuati meno di 700 controlli sul sangue, su un numero di tesserati Figc che supera il milione. Una percentuale irrisoria, che ha portato a pochissime squalifiche e quasi sempre per droghe ricreative. Ultima in ordine di tempo quella rifilata due giorni fa a Cissè dell’AlbinoLeffe: due mesi per positività alla cannabis. Per il resto, di Epo o altri ormoni della crescita nessuna traccia nel sangue dei calciatori.
Che il mondo del calcio sia immune dal doping? Fino a poco tempo fa lo pensavano anche i suoi massimi dirigenti. Solo nel 2006, il giorno dell’apertura dei Mondiali in Germania, lo stesso presidente della Fifa Blatter aveva dichiarato: “Il doping nel calcio non esiste”. Oggi, in un momento storico in cui il pallone, tra indagini dell’Europol sul sistema delle scommesse illegali e il primo squarcio aperto dal processo Fuentes con il caso del doping di squadra alla Real Sociedad, si scopre essere in mano al crimine organizzato, i toni cambiano. Anche se, come ha scritto nel suo ultimo libro Sandro Donati, ex allenatore di vari atleti azzurri e diventato negli anni la nemesi dell’antidoping italiano, sono troppi gli interessi economici in gioco perché il calcio decida di intervenire seriamente. Forse per avere controlli più seri bisogna attendere l’Armstrong del pallone, quello che fa saltare il banco. Nel caso, i tempi sembrano oramai maturi.