Il 25 maggio 1992, di ritorno a casa, trovo mia madre e mio padre incollati alla televisione, ascoltando con estrema attenzione ogni singola sillaba che il giornalista con un tono grave e mesto allo stesso tempo forniva. I loro volti erano scuri ed un po’ preoccupati, la domanda da parte mia era d’obbligo, nonostante i miei “soli” otto anni e mezzo di vita: “Che è successo?” chiesi. La risposta di mio padre fu completa e concisa: “Abbiamo perso degli uomini per bene.”
Ovviamente all’epoca non capii esattamente cosa stesse succedendo, ma nei mesi a seguire anche ad un bambino par mio fu chiaro che era in atto una guerra. Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e tutti gli uomini che facevano loro da scorta erano vittime di questa guerra. Non ci trovo nulla di blasfemo, nonostante l’espressione non sia stata usata molto spesso, nel definirli dei martiri della mafia.
Un solo delitto sarebbe finito nel dimenticatoio a breve, l’Italia è fatta così (è un dato di fatto, è inutile prenderci in giro), ma due delitti di “pezzi da 90” della lotta alla mafia, seguiti dalle stragi in tutta Italia hanno lasciato un solco indelebile anche in un bambino quale ero. Ovunque, soprattutto in Sicilia, le manifestazioni contro la mafia erano all’ordine del giorno, così come dichiarazioni di politici, giornalisti ed “eminenti personalità”.
A più di vent’anni di distanza, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono ancora ricordati come eroi difensori dello Stato, disposti al sacrificio supremo pur di lottare per ciò in cui credevano. La domanda è: se fossero vivi oggi, lotterebbero ancora con ugual vigore? Riformulo meglio la domanda: dopo vent’anni, di ciò che loro pensavano cosa è rimasto?
E qui a mio avviso arrivan le dolenti note: ciò che temo è che l’indignazione seguita nell’immediato dopo-mattanza si sia trasformato in rassegnazione, se non addirittura in paura. Il tempo ha aiutato gli italiani a metabolizzare le stragi, e temo che nella maggior parte dei casi l’evoluzione a cui esso ha portato può essere ciò che ci fa persistere nella condizione di Stato in eterna cancrena.
Uno dei meriti di Falcone e Borsellino fu di intuire che la mafia doveva essere combattuta anche dal punto di vista culturale, che la gente doveva essere informata di quali gesti, che magari si compiono quotidianamente, rendono le mafie più potenti che mai. Questo portò schiere di gente ad accusarli di tutto, poiché non perdevano occasione per spiegare con ogni mezzo possibile come contrastare la mafia anche senza armi e manette. Quando erano vivi, erano considerati dei sovversivi, e come lo stesso Falcone ha ammesso in una trasmissione televisiva, per essere eroe in Italia devi essere morto.
Di questa spiacevole realtà, ovvero di come quelli che ora chiamiamo eroi venissero trattati da vivi la dice lunga su quello che è l’italiano medio: un vile. Se li si interpella dicono: “Sì, mi dispiace, ma da solo non posso fare niente!!! Io sono una persona normale, non ho alcun potere!” , ma è solo un modo diplomatico per dire: io mi faccio gli affari miei e basta.
Ciò che Falcone e Borsellino volevano dire è che la mafia, in quanto fenomeno umano, può essere sconfitta, ma solo da gente che si unisce consapevole di essere parte dello stesso tessuto comunitario, disposta a condividere ed anche a rinunciare.
Questo quadro inquietante mi fa essere estremamente pessimista per il futuro: la maggior parte degli italiani vogliono cambiare le cose, ma nel momento in cui si rendono conto che è impossibile tentare di cambiare le cose e nel contempo avere una vita “normale”, tornano sui loro passi e dicono: perché devo combattere da solo le battaglie che gioveranno anche a tanta altra gente? Ed allora mi rendo conto di quale forse è stata la forza più grande di Falcone e Borsellino: la forza di essere da soli.
Ernesto Giuffreda