A un anno esatto dalla storica sentenza che ha condannato Schmidheiny e De Cartier è cominicato il processo d'appello. Secondo il giudice Alberto Oggè i vertici della multinazionale dell'amianto avrebbero deciso di minimizzare i rischi legati alla lavorazione del minerale così come i nazisti avevano occultato lo sterminio degli ebrei
A un anno esatto dalla storica sentenza di primo grado, è cominciato a Torino il processo d’appello per il caso Eternit. Stesso Palazzo di Giustizia, stesse aule e stessi imputati, sui quali, però, oggi pesa una condanna a 16 anni di carcere per disastro ambientale doloso. Il giudice Alberto Oggè, nella lettura della relazione che ha aperto il processo, ha paragonato la tragedia della fabbrica all’Olocausto: il cenno è legato a un passaggio della sentenza di primo grado in cui si spiega che i vertici della multinazionale dell’amianto, negli anni ’70, avrebbero deciso di minimizzare i rischi legati alla lavorazione del minerale e di diffondere informazioni rassicuranti. Il parallelo con l’Olocausto, ha osservato il giudice, si può rintracciare nel fatto che lo sterminio degli ebrei venne nascosto dalle autorità naziste e fu possibile ricostruirlo in tutti i suoi passaggi soltanto a posteriori.
Gli imputati sono il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny e il barone belga Louis De Cartier, entrambi condannati in primo grado a 16 anni per disastro doloso e omissione dolosa di cautele antinfortunistiche. La giuria deve anche decidere sui risarcimenti, decisi in primo grado, per circa 100 milioni alle 6.400 parti civili. Soldi che per il momento non si sono visti. “Noi – dice il sindaco di Casale, Giorgio Demezzi, aspettiamo 25 milioni. Ma costringere gli interessati a pagare richiede un iter complicato e costoso”. Da alcune settimane, su invito della Regione, la Guardia di Finanza ha cominciato a esaminare la situazione delle holding Eternit per capire da quale parte aggredire il patrimonio. Nel frattempo Schmidheiny ha continuato la politica degli accordi transattivi con i singoli: tre parti civili hanno accettato e sono uscite dal processo.
Intanto si continua a morire. Uno degli avvocati, Roberto Lamacchia, ha comunicato alla Corte che la signora Maria, di Casale Monferrato, non è più parte civile perché deceduta: “Questa falcidia – ha detto a fine udienza – è uno degli aspetti più orribili dell’intero processo”. “La nostra causa – ha osservato Bruno Pesce, presidente dell’Associazione familiari vittime di Casale – è ormai un punto di riferimento per tutti coloro che combattono il fenomeno”.
A lottare a fianco dei familiari e degli amici delle vittime italiani, ci sono comitati belgi e francesi che, sulla questione amianto, invocano indagini più stringenti ed efficaci anche nei loro Paesi. “In Francia – ha spiegato Alain Bobbio – l’amianto ha fatto tremila morti, ma il giudice istruttore che stava svolgendo l’indagine è stato trasferito contro la sua volontà: al Governo chiediamo di reintegrarlo”. “Ho perso cinque familiari – ha detto il belga Eric Jonckheere – ma pur di fare un processo ho rifiutato i soldi che mi hanno offerto. Altri non hanno fatto così, si sono fatti comprare il loro silenzio e la conseguenza è che in Belgio di questo problema non parla nessuno”.