Capita di girovagare per le strade di Barcellona a bordo di una Vespa ben riadattata. Percorrere il circuito metropolitano battuto dal turismo di massa che cinge la città in pacifici ma chiassosi assedi. Infilare l’Avenida del Carrilet, un’arteria a tre corsie che conduce verso sud, al cuore di L’Hospitalet de Llobregat, conglomerato urbano oramai fagocitato dalla periferia della capitale catalana. Di colpo, dinanzi agli occhi si apre uno scenario che ci riporta in Italia.
Diciassette edifici che si stagliano in un’area di oltre duecento mila metri quadrati trasferiscono l’immaginario all’area dello scalo merci ferroviario di Salerno.
Le forme, le geometrie, le simmetriche aperture, i colori dei pannelli prefabbricati di quelle diciassette enormi scatole di cemento richiamano alla mente il grande cantiere che si affaccia sulle sponde del fiume che attraversa la città campana.
La cittadella giudiziaria di Salerno a Barcellona è la Ciutat de la Justicia. Uguale il nome e la funzione, identico il progetto.
David Chipperfield è la firma che unisce col cemento la città tirrenica alla capitale catalana.
La similitudine confonde, come quando un abito cucito su misura, acquistato come capo esclusivo, lo ritrovi della stessa foggia a coprire il corpo di qualchedun’altro.
Forse è solo il segno più abbagliante di certa grossolana modernità. La globalizzazione delle economie porta ad esporre prodotti identici nelle vetrine di negozi ad opposte latitudini. Le originali boutique storiche, che per secoli hanno ravvivato con eleganza le viuzze che si intersecano dentro le mura di Lucca, lasciano sempre più spazio alle catene di franchising che rendono uguale una strada all’altra, una città all’altra.
L’architettura non si discosta da andamenti sociali tanto avvilenti, capaci di affievolire le identità, di degradare le unicità in favore di un’omologazione che spesso è sinonimo di volgarità.
Salerno come Barcellona quindi. Con un’unica differenza: il cantiere della cittadella italiana è fermo da anni. Bloccato nelle sabbie mobili della burocrazia e nei terreni melmosi della politica.
Pare che la riproduzione seriale di pezzi di città necessiti del nome altisonante dell’archistar. Un alibi per coprire le speculazioni edilizie, fonti di consumo indiscriminato di suolo, di arricchimenti ingiustificati e connivenze, di appiattimento urbanistico e di sradicamento culturale. Un pretesto utile a dare fiato al provincialismo spinto di amministratori locali che vedono i progetti griffati come l’abito buono da esibire la domenica mattina.
L’inglese Chipperfield porterà a termine lo stesso compito che Salerno ha assegnato al catalano Bofill: tracciare un segno sempre uguale a se stesso. L’enorme caseggiato privato Crescent, poggiato su pesanti colonne doriche, cancellerà un prezioso tratto di costa tirrenica, prima demanio marittimo.
Lo stesso involucro postmoderno già visto a Savona, a Stoccolma e in città francesi.
Le città visibili, in fotocopia. Nel nome di Sua Maestà il cemento.
Andrea Lupi e Pierluigi Morena