Più grande sei più facile è non pagare le tasse. Questo è il succo del rapporto Ocse Affrontare l’erosione della base fiscale e lo sviamento dei profitti che invita i grandi del G20 a contrastare una volta per tutte l’evasione fiscale delle grandi multinazionali. Si perché secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico proprio le grandi corporation sarebbero colpevoli di pagare qualche spicciolo a fronte di miliardi di euro di profitti. Per carità, tutto legale sulla carta, solo una questione di “cavilli”.
Le cifre fanno paura. Grazie a tutta una serie di stratagemmi, le grandi multinazionali riescono spesso a pagare solo il 5 per cento di tasse sui propri profitti mentre le piccole e medie imprese devono sborsare fino al 30 per cento, e alla faccia della crisi. Per non parlare dei singoli cittadini, dove le trattenute Irpef minime sono al 23 per cento anche per stipendi rasenti i 1000 euro al mese. Com’è possibile? Il fatto è che chi ha i mezzi economici ha il “know how” e soprattutto qualche piccola filiale in qualche paesino tipo Andorra o Bahamas. Ecco allora che per magia tutti gli utili finiscono in una sede o in una seconda società ubicata in pieno paradiso fiscale, mentre nella filiale che si trova nel Paese in cui le tasse sono elevate si concentrano bassi ricavi o addirittura perdite.
“Queste strategie, per quanto formalmente legali, erodono la base impositiva di molti Paesi e minacciano la stabilità del sistema fiscale internazionale”, afferma Anguel Gurria, segretario generale dell’Ocse, che per questo chiede “soluzioni globali per assicurare che il sistema non favorisca in maniera squilibrata le multinazionali, a discapito di piccole imprese e singoli contribuenti”. Ecco che l’organizzazione di base a Parigi promette che nei prossimi mesi lancerà un piano di azione assieme a governi e imprese per quantificare l’ammontare esatto delle tasse a livello internazionale perse a causa di questi cavilli. Si perché nella migliore delle ipotesi si tratta di cifre a nove zeri. Basti pensare che secondo lo studio le sole società statunitensi, che su questo tipo di evasione fanno scuola, detengono capitali offshore per 1.700 miliardi di euro.
Ma “paradiso fiscale” non vuol dire solo isolette dei Caraibi. Nonostante le cifre citate dall’Ocse sui casi di Barbados, Bermuda e Isole Vergini britanniche che secondo dati Fmi nel 2010 messe assieme hanno ricevuto investimenti esteri diretti del 5,11 per cento del totale globale, più del 4,77 della Germania e del 3,76 del Giappone, anche nel cuore dell’Europa ci sono dei Paesi che attraggono miliardi di euro forti di regimi fiscali a dir poco “concorrenziali”, parliamo di Gibilterra, Liechtenstein, Monaco, Repubblica di San Marino e l’immancabile Svizzera. A questo riguardo, il rapporto Ocse scrive a chiare lettere che “gli Stati sono responsabili delle norme che essi stessi hanno introdotto e non possono chiedere alle imprese di agire sulla base di criteri ultra legem”.
Una fotografia che fa piuttosto male specie in piena crisi economica con milioni di finanziamenti che non arrivano più alle Pmi e milioni di contribuenti europei costretti a dolorosi sacrifici per tappare i buchi delle casse pubbliche del proprio Paese, magari a seguito di qualche nazionalizzazione bancaria. Lo scorso maggio il presidente Fmi, la francese Christine Lagarde, si scagliò veementemente contro il popolo greco accusato di “non pagare le tasse”, peccato per il quale i bambini greci non meritano la sua compassione: “Se sono sottoposti a dei tagli di risorse è perché i loro genitori non hanno pagato le tasse”. Vediamo se lo stesso discorso varrà domani al G20 per le multinazionali.
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