Poco più di un mese fa la Corte di Strasburgo aveva condannato l’Italia per il trattamento inumano dei detenuti. Le carceri italiane sono sovraffollate: ci sono 47mila posti nelle strutture, ma gli “ospiti” sono almeno 18mila di più. E così un giudice ha pensato di chiamare in causa la Corte Costituzionale. La legge fondamentale dello Stato italiano recita, infatti, all’articolo 27: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”.
Così un giudice di Padova ha pensato a prigioni a numero chiuso – riporta il Corriere della Sera – come “unico strumento per ricondurre nell’alveo della legalità costituzionale l’esecuzione della pena” se le condizioni detentive sono “contrarie al principio di umanità”. L’ordinanza del magistrato è senza precedenti perché solleva d’ufficio una questione di incostituzionalità invocando la possibilità per i magistrati di sospendere e rinviare l’esecuzione in carcere della pena di un detenuto non soltanto quand’essa potrebbe determinare “grave infermità fisica” (unico evento previsto dalle norme italiane, ndr), ma anche nei casi in cui verrebbe scontata in condizioni intollerabili di sovraffollamento e dunque si risolverebbe in “trattamenti disumani e degradanti.
La questione posta ai magistrati dal giudice Marcello Bortolato riguardava una richiesta di sospensione e differimento della pena avanzata da un detenuto che “dopo 33 giorni con a disposizione 3,03 metri quadrati nella casa di reclusione di Padova (889 presenze contro 369 posti regolamentari), era stato trasferito nella casa circondariale (226 detenuti contro una capienza di 104) per 9 giorni con 2,43 mq a disposizione, e per 122 giorni con 2,58 mq di spazio, peraltro in concreto ridotti dal mobilio”. Comunque sempre meno dei 3 metri a testa che la corte di Strasburgo ha ritenuto parametro vitale minimo al di sotto del quale c’è violazione flagrante dell’articolo 3 della Convenzione dei Diritti dell’uomo e dunque, per ciò solo, “trattamento disumano e degradante”.
“La pena inumana non è legale, cioè è “non pena ” e dunque secondo il magistrato veneto andrebbe sospesa o differita in tutti i casi in cui si svolge in condizioni talmente degradanti da non garantire il rispetto della dignità del condannato”. Da qui la richiesta alla Consulta di estendere anche a questi casi la facoltà del giudice di rinviare la pena dopo aver operato, volta per volta nella vicenda singola, un “congruo bilanciamento degli interessi da un lato di non disumanità della pena, e dall’altro di difesa sociale”. Come prescrive la Costituzione italiana.