Via Notarbartolo, traffico intenso, l’arteria cittadina è affollata di automobili, furgoni, motociclette, qualche bicicletta; gli autobus procedono lentamente nella corsia preferenziale che nessuno rispetta, obbligandoli ad uno slalom tra le auto parcheggiate in seconda fila e quelle che procedono in senso contrario; immancabile, il frastuono dei motorini elaborati che raggiungono il triplo della velocità consentita e, ovviamente, fanno il triplo del rumore.

La strada è una delle vie più trafficate di Palermo: parte dalla zona portuale e attraversando interamente la città, approssimativamente da nord a sud, raggiunge le pendici delle colline che circondano quella che, in altra epoca, fu definita la “conca d’oro”: mandarini, limoni, aranci e giardini riempivano gli spazi ora occupati da interi quartieri residenziali e popolari venuti su come funghi, con i soldi della mafia e la connivenza dei politici, durante l’ormai famoso e triste “sacco di Palermo” degli anni sessanta.

Ormai d’oro ci sono solo gli affari della mafia che sta inondando la città con un fiume di eroina prodotta nelle raffinerie sparse nella provincia. La maggior parte prende la via delle piazze estere, ma ciò che resta, o per meglio dire, i rimasugli, sono sufficienti a tenere in piedi il mercato cittadino.

E’ così che, fonte di facili guadagni, la droga è diventata parte integrante dell’economia di interi quartieri degradati, nonché il veleno che sta decimando un’intera generazione travolta dalla piena e incapace di difendersi.

Uno dei quartieri più contagiati dal traffico dell’eroina si chiama “il Capo” e fa parte del nucleo storico di Palermo. Il nome ricorda che un tempo lì terminava la città e cominciava il mare.

Come gli altri quartieri storici, versa in condizioni di estremo degrado: le case fatiscenti e a volte pericolanti, alcune ancora in piedi solo grazie a puntelli e travi di legno piazzati da chissà chi e in quale epoca, i vicoli invasi dalla spazzatura.

Palazzi che un tempo furono dimore di illustri personaggi ospitano adesso un’umanità sofferente ma orgogliosa – quale palermitano non lo è? – che vive spesso di lavoro nero e lavoretti, quelli che a Palermo si chiamano “cavigghie”.

Altrettanto spesso i lavoretti sconfinano nella illegalità, contrabbando di sigarette e droga, tanta droga, eroina per lo più, che la mafia volentieri dà a credito senza problemi visto che i mezzi per convincere i creditori a saldare i conti non le mancano.

Il quartiere è famoso per il mercato, in particolare per la parte alimentare. La merce è esposta con precisione e teatralità, curando l’aspetto delle bancarelle e decorandole con tutto quello che serve a renderle attraenti, caratteristica che Guttuso ha catturato nel suo dipinto “La Vucciria”, dedicato all’ altro mercato storico della città.

Le olive verdi o nere impilate a formare una piramide, la verdura e gli ortaggi disposti in file ordinate così come la frutta profumata, i quarti di carne appesi ai ganci accanto ai lunghi cordoni di salsiccia e la trippa, i conigli e i capretti, il marmo delle pescherie coperto di cassette in cui sta il pesce freschissimo allineato tra le striature delle alghe e tenuto in fresco dal ghiaccio tritato. Su tutto, a completare il quadro, l’indispensabile testa di pescespada, la lunga lama rivolta verso l’alto.

Tra i banconi i venditori ambulanti di cibi tradizionali, panini con la milza, con panelle e cazzilli, polpettine di patate, quarume, interiora bollite, e sfincione, una specie di pizza condita con molta cipolla, sugo di pomodoro e pane grattugiato.

Le analogie con un mercato arabo sono evidenti: le grida dei venditori incessanti e la contrattazione la regola per l’acquisto di qualunque merce.

La microcriminalità è diffusa e regolata, come i traffici del resto, dalla mafia, che punisce chi non si adegua; regna la giustizia mafiosa fatta di minacce, processi sommari, morti ammazzati, lupare bianche e incaprettamenti.

A pochi passi sorge il Palazzo di Giustizia, costruzione stile ventennio, bianca e imponente e anch’essa teatro di vite sofferenti e in bilico tra la legalità, che è il motivo stesso della sua esistenza, e la sottile e pervasiva presenza della mafia che si è ormai insinuata anche dove in apparenza ciò non doveva essere possibile.

La piazza dove sorge il palazzo è ampia e, attraverso le strade che vi confluiscono, giungono le automobili blindate che accompagnano presso gli uffici i magistrati che usufruiscono della scorta, indispensabile e troppo spesso insufficiente a garantirne l’incolumità.

Il viavai è continuo e l’urlo delle sirene tace solo quando le auto, imboccata la rampa che conduce all’ingresso, rallentano e si fermano, lasciando scendere i poliziotti delle scorte – che si guardano attorno tesi e nervosi con indosso giubbotti antiproiettile e in mano pistole e mitra – e solo dopo, a situazione sotto controllo, lo scortato di turno.

All’alveare della giustizia sciamano le api che lavorano affinché la parola mantenga il senso e non resti un’astrazione lottando, da una parte, contro la mafia e contro chi la fiancheggia; dall’altra, contro il quieto vivere e il disinteresse – strisciante e complice – di chi, al limite della malafede, si ostina a negarne l’esistenza.

All’alveare della povertà e dell’arte di sopravvivere confluiscono altri insetti, la cui operosità è sottoposta alla rigida e inumana regola della tossicodipendenza, come dire un lavoro che deve fruttare quello che serve perché sia possibile continuare ad alimentare la bestia che si è insinuata tra le pieghe dell’anima e che reclama ogni giorno il suo pasto.

In silenzio, non meno circospetti e nervosi dei poliziotti delle scorte, arrivano da tutta Palermo i tossicodipendenti, qualcuno a colpo sicuro, altri a caccia della roba tra la gente indifferente e quelli che invece sono complici e favoreggiatori e a cui si può tranquillamente chiedere informazioni “turistiche”, a patto di avere superato l’esame che qualifica inequivocabilmente come tossici: le braccia segnate dalle “piste”.

Incomprensibile ma fisica la contiguità tra mondi opposti, nel palazzo chi ha nella legge e nel suo rispetto la sua ragione di esistere; a poche decine di metri chi la considera un ostacolo alla propria volontà di arricchirsi con il traffico dell’eroina ed esercitare il potere mafioso.

Tra l’uno e l’altro le vittime.

Non è raro che siano le bancarelle dove è esposta la frutta a fare da base per lo spaccio: basta un cenno al fruttivendolo e quello mette due mele nel coppo di carta marrone sul cui fondo sta la piccola busta di plastica piena di “roba”, almeno un grammo.

Equivoci personaggi che stazionano davanti alle taverne o ai bar del quartiere o nei cortili interni, angusti e sporchi, partecipano anch’essi al commercio, aiutati spesso da ragazzini che si occupano di sorvegliare la zona e di evitare che la polizia, che comunque raramente percorre quelle strade, li sorprenda.

Lontani anni luce, anche se distanti poche centinaia di metri, i negozi e le boutique famose e costose di piazza Massimo, via Ruggero Settimo, piazza Politeama e viale della Libertà, insieme di piazze e strade che, dopo l’espansione della città, hanno sostituito il vecchio centro che corrispondeva all’incrocio tra corso Vittorio Emanuele, il Càssaro, e via Maqueda l’altra arteria, parallela al mare e lunga parecchi chilometri, che assumendo nomi diversi, taglia la città da est ad ovest.

La convivenza dei due mondi è pacifica, non ci sono conflitti, tutto rientra nella schizofrenia di una città che ogni giorno dimostra di avere due cuori e due menti e che non ne soffre, quasi fosse la natura stessa ad imporglielo.

Anche oggi la vita scorre normalmente a Palermo, se di normalità si può parlare, e via Notarbartolo è come tutti i giorni, auto moto bici autobus vespe elaborate, rumore di traffico e di clacson sempre abusati, il traffico scorre lento.

Da una direzione indefinibile, almeno in un primo momento, giungono distanti i suoni delle sirene delle auto di scorta che stanno percorrendo, contromano nella corsia preferenziale, destinata ad autobus e taxi, viale della Libertà.

Le tre auto procedono a velocità elevata e le ruote stridono spesso alle accelerate brusche dei conducenti che cercano di minimizzare i rallentamenti imprevisti dovuti al traffico cittadino: auto e piloti protagonisti di una gara contro il tempo il cui premio è l’incolumità.

La mano del poliziotto seduto accanto al guidatore è fuori dal finestrino e tiene poggiata sul parabrezza o agita convulsamente, bene in vista, la paletta bianca e rossa d’ordinanza; sul tettuccio i lampeggianti magnetici in funzione.

Piazza delle Croci, sulla destra la cancellata del Giardino Inglese poi ancora un centinaio di metri e svolteranno a sinistra per imboccare via Notarbartolo a tutta velocità, fendendo il traffico pigro.

Rallentano appena scalando la marcia e, inclinate verso il lato esterno della curva dalla forza centrifuga, entrano nella via dove si trova la loro destinazione.

E’ a questo punto che lo spettacolo ha inizio.

Le auto di scorta cominciano a rallentare e a distanziarsi, tra la prima e l’ultima adesso una cinquantina di metri, al centro la terza.

La prima a fermarsi è la capofila che raggiunto l‘incrocio con via Sciuti si mette di traverso bloccando le automobili che vanno verso il mare; i tre poliziotti di scorta coi giubbotti antiproiettile scendono armati e muniti di radiotrasmittenti e fanno scorrere via le auto che proseguono verso le colline.

Quasi contemporaneamente, l’ultima auto di scorta fa lo stesso cento metri più giù, bloccando anch’essa il traffico: anche da questa scendono tre uomini di scorta che agevolano il transito delle auto in direzione del mare e via radio comunicano l’avvenuto blocco totale della zona.

La terza auto, in perfetta sincronia con le altre, ha nel frattempo percorso a velocità ridotta il tratto centrale ormai sgombro e si è fermata davanti ad un portone sul lato destro della strada, a pochi metri da una garitta blindata da cui è già uscito in precedenza un poliziotto in assetto di guerra, mentre un altro è rimasto all’interno. Tra il portone e la garitta, una magnolia mostra i primi segni di fioritura.

Ancora qualche secondo e si aprono le porte anteriori: altri due uomini armati escono dall’abitacolo, poi, dallo sportello di sinistra un terzo che, aggirando l’auto, apre al passeggero.

Tempo dell’intera manovra: circa cinquanta secondi, qualche secondo in più se il traffico è intenso: in quel caso la manovra di sgombero della zona viene iniziata da uno degli uomini di stanza nella garitta.

I volti di questi uomini sono tesi: lo sguardo nervoso si volge verso ogni direzione, le mani impugnano le armi e le armi certamente non hanno sicura.

Dall’auto scende con calma un signore di mezza età, la barba e i capelli corti e brizzolati, una valigetta di cuoio nella mano destra; fa un cenno di ringraziamento agli uomini che lo hanno scortato ed entra nel portone insieme con uno dei suoi accompagnatori e all’uomo della garitta.

Un minuto scarso e i due uomini sono di ritorno. Il piantone torna presso la garitta mentre l’altro risale in auto rapidamente, lo stesso fanno tutti gli altri, e le tre auto sbloccano il traffico ripartendo velocemente.

La rapidità della manovra dimostra la professionalità degli uomini impegnati e provoca ammirazione e un certo stupore in chi vi s’imbatte per la prima volta.

Di altro genere, ma ugualmente intenso è lo stupore che si prova assistendo alla reazione della città, di quella parte che assiste quotidianamente o solo per caso alla scena, la schizofrenica città di Palermo.

Quella che era sino a qualche minuto fa una congestionata arteria cittadina, il rumore al limite della sopportazione umana, gli strombazzamenti ad ogni piccola incertezza delle auto in marcia, si trasforma in un silenzioso ed immobile corteo di veicoli: i clacson tacciono, i motori sono al minimo, persino i passanti sostano a guardare in un fermo immagine totale, la quiete tangibile e presente; si intuisce l’eco di rumori lontani, eccettuato il movimento visibile degli uomini al centro dello spazio delimitato dalle due auto di scorta.

Un pezzo di Palermo si ferma, tace, magari in quei pochi secondi pensa e riflette davanti allo spettacolo; pochi non sanno cosa sta accadendo e perché, ma chi sa non ha dubbi: tutto questo è necessario all’intera comunità e nessuno se la sente di interrompere, anche solo con il suono sgraziato di un clacson, quella specie di balletto di uomini e auto scure e potenti dai vetri che lasciano appena intravedere i passeggeri.

Silenzio, Giovanni torna a casa.

Giovanni è quello che magari può dare una speranza agli onesti di Palermo, a quelli che hanno ben chiaro che mafia e sottosviluppo sono aspetti diversi di un unico dramma che da troppi anni è in scena.

Giovanni è il primo che ha lottato perché la parola mafia entrasse nel vocabolario comune e non fosse invece solo sussurrata.

Giovanni c’è nato nel degrado e c’è cresciuto senza esserne contagiato, bambino tra tanti nel quartiere della Magione.

Giovanni è quello che con pazienza e coraggio ha svelato la struttura dell’organizzazione e istruito il primo vero processo contro i distruttori di Palermo e della convivenza civile di un’intera città.

Li abbiamo visti in televisione i mafiosi, piccoli e meschini, doversi difendere da accuse precise, mostrando, finalmente, il volto anonimo e insignificante.

Abbiamo visto Michele Greco, detto “il Papa”, che con l’aria dell’innocente vecchietto, pur essendo inchiodato da riscontri e prove all’accusa di essere uno dei capi della mafia e di aver ordinato omicidi e lupare bianche, ha dichiarato, interrogato dal Giudice, – non so cos’è ‘sta mafia, io non ho mafiato mai – suscitando l’inopportuno, ma comprensibile, sorriso in chi ascoltava.

La gente di Palermo, che attendeva ormai quasi senza speranze un segnale chiaro di giustizia e riscatto, li ha visti soprattutto condannare alla fine da una Corte e da una giuria popolare di cittadini stanchi ma coraggiosi e pazienti.

Lo hanno ammazzato lo stesso Giovanni.

Per farlo hanno dovuto aspettare che lui e i suoi custodi fossero soli nel mezzo di un’autostrada, a centoventi all’ora su tonnellate di esplosivo – ci fosse stato quel pomeriggio di maggio un silenzioso corteo ad accompagnarlo…

Stefano De Bernardis

 

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