No profit non vuol dire ‘volontariato’ (che ne è solo una parte) ma solo ‘non redistribuzione dei profitti’, i quali – se ci fossero – vanno reinvestiti nelle attività istituzionali. Data la premessa, quanto guadagna un manager non profit in Italia? Perché guadagna meno che all’estero e nel for profit? Rispondiamo con alcuni dati aggiornati (Osservatorio sulle risorse umane nel nonprofit, Orunp, promosso da Fondazione Sodalitas ed Hay Group) e brevi considerazioni finali.
Il terzo settore fornisce un’occupazione pari al 3% circa del totale in Italia (contro il 6 % della media europea e il 7% di quella americana). Un’occupazione di qualità – prevalentemente femminile (nel settore Profit 2 dipendenti su 3 sono uomini, nel non profit le donne sono al 60%), giovanile (80% sotto i 40 anni), prevalentemente dipendente (39% nel 2011 contro il 15% nel 2006) e con meno volontari (36% nel 2011 contro il 65% nel 2006). Con molte persone diversamente abili validamente impiegate e/o associate.
Un’occupazione tra l’altro fino a tutto il 2012 stabile e con stipendi sostanzialmente allineati alla Pubblica Amministrazione.
La differenza è sui manager e soprattutto sui ‘top manager’
Un dirigente no profit guadagnerebbe il 61% in più se lavorasse nel Profit – settore Industria e Commercio (era il 140% in più nel 2006) e il 69% in più se lavorasse nel Profit – settore Finanza (era il 183% in più nel 2006).
Per intenderci, siamo su retribuzioni in un range tra i 2000 ed i 4000 euro netti mensili (a parte strutture ONU come UNICEF, UNHCR ed altre impropriamente considerate nel no profit).
Ma il top manager di un’organizzazione no profit guadagna mediamente un terzo rispetto al top manager di un’azienda Profit di pari organico.
Dal confronto internazionale tra le prassi retributive del no profit italiano e quelle adottate all’estero emerge che il terzo settore italiano perde il confronto con le grandi charity e le grosse strutture ospedaliere del Regno Unito e degli Stati Uniti, dove il no profit riconosce retribuzioni allineate con le aziende Profit.
Perché? Provo alcune ipotesi:
Cultura ‘statalista’: eccessiva dipendenza da scarsi contributi pubblici nazionali, ( scarso reperimento di fondi europei -più ‘ricchi’-).
Cultura ‘catto-comunista’: giusto o sbagliato che sia, più che un ‘merito’ o una scelta, le due culture sono accomunate dal ‘dovere’ sociale, per cui la retribuzione è quasi un ‘di più’.
Dimensioni ridotte: il non profit italiano riflette la frammentazione del sistema produttivo, tante piccolissime organizzazioni e pochi ‘colossi’ in grado di avere risorse sufficienti. Questo fa si che molti manager siano in realtà inquadrati in posizioni contrattuali molto più basse-semplicemente non si riuscirebbe a pagarne i contributi.
Impreparazione manageriale: top manager preparati adeguatamente sono in grado di produrre aumenti di ricavi molto significativi che consentirebbero stipendi più elevati. E’ un fatto che i migliori top manager sono nelle ONG internazionali e che sono i manager che guadagnano di più (anche se sempre poco rispetto ai parametri ‘for profit’ e USA-UK).
Marco Tronchetti Provera nel 2011 si è intascato il corrispettivo del salario medio di ben 877 lavoratori della sua azienda.
Personalmente so benissimo di guadagnare un terzo di quanto guadagnerei nel for profit.
E certo non fa piacere non avere i soldi per far viaggiare i figli come ci piacerebbe, o farli studiare all’estero.
Ma è una scelta consapevole, fatta molto tempo fa, in cui posso dare il massimo – e magari migliora la vita dei figli di tutti. Mi da pieno senso di me stesso, una profonda felicità e la sera mi guardo allo specchio con la coscienza (sociale) a posto.
Non so se per Tronchetti Provera è lo stesso.
Il lettore interessato ad approfondire seriamente è benvenuto ai nostri incontri: scrivere a M.Crescenzi@asvi.it, oggetto: “incontro open gratuito “Fundraiser, manager e professionisti del no profit” presso The HUB ROMA, venerdì 22 Febbraio, dalle 16 alle 18, Viale Dello Scalo San Lorenzo 67, prenotazione obbligatoria massimo 15 persone.