“La normativa è rigidissima”
“Nel territorio della provincia di Ragusa sono presenti all’incirca 70 pozzi, ma a memoria d’uomo non si ricordano grandi incidenti o disastri”
dal gruppo Eni come riportato da La Sicilia, 22 Agosto 2012
Forse loro non ricordano, o non vogliono ricordare, ma internet, e la stampa e la memoria d’uomo onesto ricordano benissimo.
Il caso più noto di scoppi di pozzi di petrolio in Italia – forse perché più recente – è quello di Trecate, Novara, dove nel 1994 scoppiò un pozzo di petrolio dell’Eni. Per tre giorni ci fu eruzione incontrollata e pioggia di idrocarburi dal cielo. Tutto nero – risaie, case e vite.
Nel 1991 ecco un altro pozzo scoppiato, a Policoro, in Basilicata.
Andando a ritroso nel tempo troviamo anche lo scoppio della piattaforma Paguro, nel 1965 in cui persero la vita tre operai dell’Eni. Quello fu un piccolo golfo del Messico italiano: 2 mesi e mezzo di rilascio incontrollato di acqua e metano in aria con nessuno che sapeva cosa fare per fermare il tutto.
E poi ci fu lo scoppio nei pressi di Ragusa, nel Novembre del 1955 di cui non abbiamo mai parlato.
Di questo scoppio ci sono ancora meno tracce nella memoria collettiva che di Trecate e di Paguro.
Era il pozzo petrolifero numero nove di Tabuna, a circa un chilometro da Ragusa ed operato dalla Gulf Oil, società americana. La Gulf fu la prima a scoprire il petrolio in Italia, proprio a Ragusa nei primi anni ’50. Questa ditta è poi confluita nella Chevron.
A Tabuna, il giorno 5 Novembre 1955 una perdita di metano aveva fatto scoppiare una valvola e di lì un enorme incendio. Ecco un po’ di copertine dell’epoca – prese dal quotidiano La Sicilia.
Nel testo si parla di “un ammasso informe di ferraglie e lamiere che ardono in un immane e spettacolare rogo.”
Si dice che stavano provvedendo alle operazioni di “swabbing” e cioè si incendiava volontariamente ed in maniera controllata un certo quantitativo di greggio, ma improvvisamente, grazie alla rottura di una valvola “si sprigionava dalla tubatura del pozzo una altissima colonna di gas metano che si incendiava instantaneamente”.
Un articolo de La Stampa dell’epoca parla di “Un pauroso incendio di eccezionali proporzioni“, una “spessa nube nera“, “tutto il castello della trivella veniva avvolto dalle fiamme“.
Molte cose sono avvolte nel mistero: ad esempio il pozzo è bruciato per 15 giorni secondo i Vigili del fuoco, e per 8 secondo i titoli di stampa. La trivella “National 130” come titola il quotidiano di Sicilia, alta 50 metri è crollata.
Come da copione nessuno sapeva cosa fare per spegnerlo. Sono arrivati i Vigili del fuoco da Siracusa, Messina e Catania.
“La popolazione di Ragusa è in preda ad un vivo orgasmo”.
Alla fine, per contrastare la pressione sotterranea il pozzo è stato coperto con un “sarcofago” in cemento armato di diverse tonnellate di peso e per spegnere l’incendio hanno dovuto chiamare Mr. Myron Kinley dagli Usa, il mago degli incendi nei pozzi di petrolio.
Un altro articolo sempre della Stampa lo chiama “il mangiatore di fuoco“, e lo descrive come un eroe – indossava una vestaglia granata, potentissimi getti d’acqua, una terribile calura, rischiosissimo lavoro, sfidando la morte. Altri soprannomi che aveva era la “Salamandra Umana” e “Gamba di Legno“.
Era come se la natura si fosse ribellata ma poi l'”Americano” era venuto a salvare tutti.
Questo incidente lo ricorda ancora qualche persona anziana che racconta che verso sera il cielo restava illuminato a giorno. A quel tempo si conosceva poco del petrolio. La gente ebbe paura ma visto che tutto si risolse per il meglio, l’episodio pian piano venne dimenticato.
E cosi oggi l’Eni può dire che “a memoria d’uomo non si ricordano grandi incidenti o disastri”.
E’ per questo che è importante la memoria del passato – che sia dello scoppio di pozzi, che sia del crollo di dighe, che sia di chi eleggiamo a capo del governo – in modo tale che gli stessi errori non vengano commessi mai più, e soprattutto in modo che nessuno possa dire “credetemi” a scatola chiusa, petrolieri o politici che siano.