L'avvocato David Zanforlini ha quantificato che nelle prove di laboratorio muoiono in Italia 600 esemplari all'anno tra cani, gatti e scimmie. "Grave discrasia fra il numero di quelli dichiarati in vita dai centri di ricerca alla fine degli esperimenti e quelli invece affidati agli istituti di custodia”
Seicento animali sottoposti a esperimenti di laboratorio “scompaiono” ogni anno in Italia senza lasciare traccia. Un buco nero sul quale sta cercando di far luce un avvocato del foro di Ferrara, David Zanforlini, ormai esperto di temi ambientalisti. Ultimo in ordine di tempo quello dell’allevamento Green Hill di Montichiari (Brescia).
Proprio seguendo quel caso, Zanforlini viene a sapere da fonti confidenziali che, una volta usciti dai centri di ricerca, alla fase della riabilitazione “arriva appena il 7/8 percento degli animali” (scimmie, cani e gatti). Un 30% finirebbe soppresso a causa delle sofferenze causate dagli esperimenti, che non consentirebbero all’animale una vita normale. “In mezzo c’è un buco di oltre il 60% degli esemplari”. Lo dice il legale, ma non occorre essere esperti di statistica per quantificare il numero di animali “scomparsi”.
Se consideriamo che in Italia, fonte Lega Antivivisezione, ogni anno sono 970 gli animali-cavia (“in questo – fa notare Zanforlini – paradossalmente l’Italia è un’isola felice rispetto ai numeri di Francia, Germania e Inghilterra, che ne ‘vantano’ cinquemila l’anno), si parla di circa 600 esemplari di scimmie, cani e gatti che mancherebbe così all’appello. La materia è disciplinata dalla legge 116 del ’92, relativa alla protezione degli animali utilizzati a fini sperimentali. L’articolo 6 prevede che al termine dei test la ‘cavia’ ancora in vita può essere tenuta presso il centro di ricerca o affidato a uno stabilimento di custodia o rifugio. Ogni struttura deve tenere un registro degli animali utilizzati, annotando numero, specie, provenienza e le date del loro arrivo, della loro nascita e della loro morte.
Per verificare quei numeri Zanforlini, in qualità di rappresentante legale di Legambiente, ha scritto a Luigi Nicolais, presidente del Consiglio nazionale delle ricerche. “Dalle indagini svolte da Legambiente – spiega il legale nella lettera – e incrociate con alcuni dati non ufficiali inerenti la presenza di alcuni primati non umani, cani e gatti, in alcuni centri di ricerca italiani, nonché dei dati circa la loro soppressione o affidamento ad altre strutture al termine degli esperimenti, si evidenzia una potenziale discrasia fra il numero degli animali dichiarati in vita dai centri di ricerca alla fine degli esperimenti e quelli invece affidati gli istituti di custodia”. Per scoprirlo, Legambiente ha bisogno di avere quei dati, conservati all’interno dei registri dei centri di ricerca, molti dei quali collegati al Cnr. “Se così fosse – avverte l’avvocato – si potrebbe configurare il reato previsto dall’art. 544 bis del codice penale”. Ossia uccisione di animali.
Identico tentativo era stato fatto in precedenza, a novembre, con il ministero della salute. In quell’occasione si chiedeva il numero di primati, cani e gatti utilizzati con espressa autorizzazione ministeriale nelle strutture di ricerca e nelle aziende farmaceutiche, pubbliche e private, in tutta Italia. Altra domanda riguardava l’impiego effettivo degli animali e le indagini scientifiche alle quali erano stati sottoposti. Infine, questa la ‘prova del nove’, quanti animali, al termine delle attività di sperimentazione, vengono affidati a provati o associazioni e quanti invece vengono soppressi.
La risposta del dipartimento per la sanità pubblica veterinaria non lasciava spazio a repliche: domanda troppo generica e tipologia di documentazione non rientrante nel diritto di accesso. Inoltre, secondo il direttore generale Gaetana Ferri che rispondeva in calce, si tratta di atti che possono essere forniti solo in caso di procedimento penale in cui il richiedente sia parte.
Questa volta, scrivendo al Cnr, Zanforlini fa notare che “laconiche risposte del tipo la documentazione non è dovuta perché non rientra nella disciplina dell’accesso agli atti, potrebbero essere valutate come rifiuto di atti d’ufficio, fatto punito penalmente”.