La bambina modella non è, come in molti pensano, solamente il risultato dei desideri (e delle colpe) di una madre e di un padre. Certo, il rapporto famigliare è al centro della questione, del bisogno di essere guardati, del ciclo di sbagli e delle cose non dette, dell’amore comunque e nonostante tutto.
Nel documentario Divine la famiglia è stata il cuore della mia indagine. Nel raccontare la vita delle mie tre protagoniste, bambine modelle di dieci anni, avevo cercato di recuperare il loro sguardo, tentando l’impresa quasi impossibile di vedere attraverso i loro occhi il loro mondo e quello degli adulti.
In quel cambio di prospettiva cercavo soprattutto la memoria dell’infanzia, quella privata e collettiva, un’età della vita rimossa, spesso deformata, lacunosa.
Eppure l’infanzia è sempre stata narrata, fin dalla sua nascita, dagli adulti. L’idea stessa dell’infanzia, per come la percepiamo oggi, è un’invenzione piuttosto recente. È solo a partire dall’età rinascimentale che viene riconosciuta a questa fase della vita delle caratteristiche proprie e distinte rispetto alle altri fasi di sviluppo (Enciclopedia delle Scienze Sociali). L’infanzia è così diventata categoria di pensiero sempre più articolata, fino a diventare uno dei protagonisti di studio del secolo appena trascorso. Numerose discipline, tra cui la psicologia, la pedagogia, il diritto, la sociologia si sono adoperate per comprenderla, definirla e poi riformularla. L’infanzia è oggi categoria sociale e culturale, condizione psicologica, luogo simbolico, soggetto giuridico e infine ambito di consumo.
Nel corso di solo mezzo secolo sono state teorizzate la nascita (formulata da Philippe Ariès nel 1960, e la fine dell’infanzia. Così almeno sostiene Neil Postman, che attribuisce principalmente alla televisione e alle sue modalità di fruizione la responsabilità di avere adultizzato i bambini e omologato le età della vita. Non credo che l’infanzia, come età distinta della vita, stia scomparendo. L’infanzia esiste oramai nel nostro immaginario e nella nostra memoria collettiva (semmai è in continuo evolversi); è davanti ai nostri occhi ed è necessaria al mondo interiore dell’adulto. Un luogo proiettivo e immaginifico.
Vero è che le narrazioni dominanti sull’infanzia vengono scelte e costruite dai media e dall’industria. I prodotti per bambini comprendono in pratica ogni campo: quello alimentare, cinematografico e discografico, il settore dei giocattoli, il campo sanitario, l’industria dell’abbigliamento, ecc.
Il Pitti Bimbo, evento italiano biennale dedicato alla moda per bambini, è l’espressione puntuale e precisa di come l’industria dell’abbigliamento e i media, o meglio la combinazione tra i due, aggiornino ogni anno l’idea dell’infanzia. Il Pitti è contenitore di significati sociali, di immaginari ed è piattaforma economica, elementi essenziali nella creazione di nuovi contenuti. Non solo la moda bambini è un tassello importante del mercato italiano, fatturando una media annuale di 2, 6 miliardi di Euro (è uno dei pochi settori che non ha quasi risentito della crisi economica), ma comprende al suo interno un mercato di lavoro che ricopre le più svariate professionalità: le aziende, i buyers di catene distributive, gli agenti, i casting director, i fotografi, ecc. Sebbene il Pitti Bimbo sia un evento comunicativo dall’estetica amplificata e deformata, che non riferisce direttamente al suo destinatario, il compratore, bensì alle figure intermediarie, gli agenti e le catene distributive, non per questo l’impatto che ha sulla società è meno rilevante.
Le catene distributive non hanno tanto il compito, come nell’alta moda, di normare e ridimensionare il mondo estetico trasfigurato del Pitti, perché, e questo è il problema, il sistema Pitti è un meccanismo conservatore che non fa che ribadire e confermare i valori dominanti sui bambini già presenti nella nostra società. Al Pitti Bimbo ci sono stata diverse volte nel corso degli anni 2008 e 2009 per le riprese del documentario Divine.
Il video a seguito è una raccolta di appunti visivi sul Pitti Bimbo, non riorganizzati dal montaggio. Non ha la pretesa di verità assoluta, vuole solo essere un modo per riflettere sul senso e sui significati delle immagini. Nello spiazzo all’ingresso del Pitti Bimbo è posizionato un enorme pannello, cinque volte più grande di una figura umana. La gente attraversa il piazzale senza nemmeno farci caso. Il pannello mostra sullo sfondo la tappezzeria di una cameretta e in primo piano una Barbie di dimensioni gigantesche sdraiata sul fianco, mentre dei gattini neri giocano con i suoi capelli. Sul divano di fronte dei soldatini di dimensioni più piccole, dando le spalle alla Barbie, sono in posizione da sparo. Mirano a un ipotetico bersaglio, talmente irrilevante da rimanere fuori campo.
È la guerra dei giocattoli, come spiega anche la scritta “Toys vs toys”. Gli stessi giocattoli di sempre fanno la guerra. L’immaginario dominante è l’unico vincitore, perché protagonista assoluto dell’immagine; e riafferma i giochi tradizionali, la Barbie e i soldatini, due emblemi della divisione dei generi nell’infanzia. Il soldatino per il maschio, la Barbie per la femmina. Gli stand all’interno del Pitti Bimbo rispecchiano diverse immagini dell’infanzia, con l’idea di dissuadere ogni tipo di target. Il consumatore si riconosce per forza in uno dei tanti mondi di valore proposti dai brands. Rimango colpita da un vasto esercito di manichini che occupa l’intero spazio espositivo. I soldati, disposti in file di otto manichini, appaiono minimalisti ed eleganti. Indossano giacche grigio scuro con cappuccio, identificativo della street culture, e degli occhiali rossi o blu, la cui forma rimanda vagamente a quelli dell’aviatore. L’abbigliamento e gli accessori rimandano a immaginari non immediatamente riconoscibili, il consumatore ha solo la sensazione dell’idea che gli viene proposta, senza averne la consapevolezza. I simboli si mescolano, gli eserciti, il vintage, il minimal chic, lo street ma con la griffe. Il corpo collettivo ha l’aria aliena, quasi come fosse una tribù arrivata dallo spazio, creature lunari e intoccabili. La guerra simbolica questa volta è tra chi appartiene all’esercito e chi ne è escluso. Tra chi indossa il marchio ed entra a pieno titolo nell’esercito e chi invece rimane solo.
In un altro stand incappo in una giostra vivente.
Inizialmente non ci posso credere, le aziende dovranno pur essere consce dei significati che scelgono; le immagini significano. Sulla piattaforma roteante sono montate delle biciclette argentate con ampie ceste di fiori. La scena, tutta in stile campestre bon ton, simula una gita in campagna da parte dell’alta borghesia. Tutti gli accessori e costumi si vogliono distinguere per raffinatezza ed eleganza, comprese le bambine, che, come soprammobili, posano all’interno della giostra. La piattaforma si muove lentamente, mostrando l’alternanza tra vita e plastica, manichini immobili e bambine altrettanto immobili. Indossano vestiti di tulle e pizzi con ampi cappelli dalle falde ricamate. Rappresentano le brave bambine, sono ben vestite e soprattutto non disturbano. Anzi, disturbano talmente poco da sembrare inanimate. L’impatto è sconvolgente. Anche se non siamo più abituati a guardare, anche se non ci stupisce più nulla. Mi piace pensare che sia solo un caso che le due bambine, nell’istante in cui riprendiamo, abbiano l’aria assorta (e triste, ma forse è solo una mia percezione). Vorrei almeno che fossero completamente inconsapevoli dei significati, che fosse “solo un gioco”, come dicono tutti in questo ambiente. Chissà se è possibile non accorgersi della violenza, anche se sottile. Uno dei luoghi deputati all’infanzia è stato violato e riletto attraverso lo sguardo degli adulti, o meglio, attraverso la prospettiva del consumo. La giostra diventa vetrina, vestiti sui corpi immobili. Dolls viventi e non, la differenza è poca, ma cruciale.
Nessun suono di bambino, nessuna immaginazione, nessun cavalluccio, questa storia è solo per adulti.
Tuttavia, per fortuna, gli spazi dei manichini e quelli dei bambini sono il più delle volte separati. Le rappresentazioni scelte dai marchi sono tante: le bambine rock stars di una girl band, i dandy, le lolite, le giovani donne pronte per la spiaggia, le bionde figlie dei fiori, i bebè, biondi anch’essi. La predilezione è, sia nelle scelte dei manichini che nelle sfilate, per la pelle chiara e il capello biondo, forse ancora simbolo di classe sociale elevata e sintomatico di come viene immaginata l’Italia dall’industria. Ce n’è per tutti i gusti e per ogni idea dell’infanzia. A questo proposito segnalo un interessante lavoro di semiotica, la tesi di laurea di Eva Schwienbacher, che analizza l’utilizzo dei bambini all’interno delle pubblicità.
Le sfilate sono momenti particolarmente importanti per le aziende e avvenimenti molto attesi del Pitti Bimbo. Tutti i linguaggi utilizzati sulla passerella convergono a dare l’idea del marchio: non solo i vestiti, ma anche la scelta della scenografia e della musica è fondamentale per raccontare il marchio e la sua proposta, di anno in anno diversa, perché, come diceva Simmel, la moda è la modificazione obbligatoria del gusto. Monnalisa apre la sua sfilata sulle note di “Soldi, Soldi, Soldi, tanti soldi Beati siano soldi I beneamati soldi.” Le bambine, che indossano rivisitazioni chic sul tema di Topolino e Paperone, sfilano ancheggiando in modo goffo. Se si hanno i soldi si può partecipare al mondo di lustrini e paperi patinati.
Brooksfield azzarda tematiche più difficili: la sua sfilata inizia con il suono di un elicottero in sottofondo e un occhio di bue che illumina un muro composto da scatole di cartone. I bambini buttano giù il muro e sfidano l’occhio di bue, sfilando compostamente verso i fotografi sulle note di “Another brick in the wall”. Il potere della canzone dei Pink Floyd, inno di libertà e grido di protesta nei confronti della scuola, viene annullato. I bambini indossano completi eleganti dal gusto british, sembrano educati figli di papà che simulano una rivoluzione senza averne la più vaga idea. Un apparente gesto rivoluzionario svuotato di significato. L’effetto è paradossale. Non è, come la messinscena vorrebbe far supporre, il mondo dei bambini che si ribella a quello degli adulti. Al contrario è l’azienda, in questo caso brand tradizionale ed elegante della moda bambini, che simula un’aderenza alla prospettiva dell’infanzia.
I marchi, in mancanza di nuove visioni e proposte, saccheggiano tutto quello che c’è: immaginari, simboli politici, opere d’arte, svuotandole completamente del loro significato sovversivo. Svuotare il simbolo lasciando il vuoto. La maggior parte dei brands si muove all’interno di due grandi filoni: la scelta di posizionare il bambino all’interno dei valori canonici e consolidati dell’infanzia, oppure, ed è il caso più frequente, l’adultizzare il bambino attraverso una serie di segni estetici distintivi dell’età adulta. Si passa quindi dalla cultura hippie in cui le bambine come giovani figlie dei fiori, fresche come delle rose con vestiti fintamente trasandati, sfilano sulla passerella, a donne di mondo con cappottini francesi ed acconciature signorili che richiamano la moda parigina. Il vestito si appropria di tutte le possibili forme della socialità: lo spazio urbano e quello campestre, le classi sociali, i valori opposti e condivisi, l’eleganza e lo street, la purezza e la trasgressione.
In tutte queste messinscene c’è spesso un fattore in comune: l’età di riferimento. La moda bambino guarda all’adolescenza e ai vent’anni (nella sua prima cinquina) per trovare la sua principale ispirazione. È l’età magica desiderata da tutti, seduttiva per eccellenza; corrisponde alla maturazione sessuale e rappresenta l’ideale della giovinezza, accomunando i sogni delle bambine e delle loro mamme. Entrambe con la necessità di definirsi grazie allo sguardo desiderante dell’altro. Il desiderio, si sa, è la materia principale nel mondo dei consumi.
A parte rare eccezioni la moda per bambini, a differenza della moda per adulti che esplora le forme estetiche androgine, è anche la più conservatrice rispetto agli immaginari di genere. Le piccole donne in carriera sfilano con in mano lo specchio per ammirarsi o il piumino per la cipria per impomatarsi. I maschi vengono rappresentati come piccoli lord inglesi oppure in versione street, bulli di strada con vestiti firmati. È indubbio che le bambine sognino l’età adulta; la immaginano, la sperimentano su di sé indossando gli abiti della mamma. Le aziende invece dovrebbero avere una responsabilità sociale poiché promuovono un’immagine e la legittimano all’interno della società.
Mettersi i tacchi a dieci anni non è più un gesto immaginato davanti allo specchio, ma diventa un’immagine mediatica. E le immagini hanno sempre un impatto sociale, sono uno specchio di come vediamo il mondo e noi stessi. Raggiunti i sette/otto anni di età le bambine non sono vittime del sistema adulto, ma diventano loro stesse creatrici di contenuti. Comunicano i loro modelli di riferimento (riconducibili spesso alla showgirl televisiva) e cercano di aderire, sebbene in modo goffo e inconsapevole, alla rappresentazione che gli adulti hanno confezionato per loro. Più difficile diventa invece quando la bambina che sfila ha tre anni e cammina sulla passerella con aria smarrita sulle note di “Sei bellissima” di Loredana Bertè, (rigorosamente mantenuta sul ritornello; anche per le aziende, che si permettono davvero tutto, il resto della canzone suona troppo fuori contesto), con il pubblico che la circonda e il circo mediatico in fondo alla passerella. In questa immagine ritrovo tutta la violenza dell’adulto: esposizione totale senza un cenno di protezione. Permettere un’esposizione del genere significa non riconoscere lo smarrimento e la paura. La bambina appare come una creatura dall’aspetto delicato che però ha perso completamente le caratteristiche dell’infanzia.
Non sono i genitori gli unici colpevoli, ma tutto il sistema Pitti.
Infine, filone meno battuto e utilizzato solo dai marchi più audaci, è la stratificazione dei significati, caratteristica dell’alta moda. Le sfilate non sono più riconducibili ad un senso immediato e riconoscibile. Nelle sfilate di Agata Ruiz de la Prada le bambine sono esplicitamente oggetti inseriti all’interno di una rappresentazione. La passerella sembra un trampolino di lancio verso lo spazio, coloratissimi pennacchi, fiori e fiocchi, accessori tradizionalmente deputati all’infanzia, appaiono come accessori magici sulle teste delle bambine. Tuttavia non sembrano detentrici del potere magico, ma portatrici passive di un carico simbolico che le sovrasta e le trascende. La rappresentazione dell’infanzia si spinge in territori al limite: le bambine sfilano impacchettate come caramelle. Il contenuto è esplicito: l’infanzia è resa oggetto, un dono offerto al mondo degli adulti.
La messinscena qui è solo più esplicita, il “prodotto bambino” è alla base di tutto il sistema Pitti. Il Pitti Bimbo non racconta un mondo fittizio e spettacolare per soli adepti, ma ha un impatto reale sulla vita delle famiglie. Produce le immagini in cui ci riconosciamo, detta gli stili, influisce sulla percezione che abbiamo di noi stessi. E spesso non fa che “aggiornare” antiche rappresentazioni di genere.
Anche su un piano individuale l’effetto è deleterio. Alla base della rappresentazione c’è un soggetto che, nel migliore dei casi, è all’inizio della pre-adolescenza; nella peggiore delle ipotesi un bambino di tre anni che subisce le rappresentazioni degli adulti, senza avere gli strumenti per affrontarle. Come diceva Winnicott, pediatra e psicanalista inglese, ogni bambino ha bisogno di essere guardato e di ritrovare se stesso nel volto della madre.
Se al posto di se stesso il bambino troverà nel volto della madre solo le sue esigenze, rimarrà tutta la vita senza specchio. Il fatto che al Pitti, quindi su scala sociale amplificata, il bambino non venga riconosciuto come bambino, è un problema che riguarda tutti noi.