Il racconto della scrittrice Alessandra Fiori per Il Fatto Quotidiano del Lunedì sui giorni di attesa di un cattolico diviso tra la morale e l'impegno politico
“Papà, ma non lo vedi? Pure il Papa ha rinunciato. E tu ancora vuoi votare? Portiamo i ragazzi sulla neve. Vuoi venire?”
Sotto un cielo nero a lutto in Via della Conciliazione gli ombrelli sono rimasti chiusi. Spinto dal vento freddo, il gregge procedeva verso l’ultimo richiamo del pastore.
In piazza, oltre quei baracconi d’impalcature, erano più le telecamere dei cristiani. Un passo avanti e un altro indietro, tutti pronti con i cellulari per l’ultimo Angelus di quel Papa che ha deciso di lasciare il pontificato. È il settimo che saluto, ma, pure religiosissimamente parlando, il primo senza un funerale. Dice che prima di lui solo Celestino. Dice che è per la banca dei preti, per lo scandalo dei ragazzini, perché sta male. Forse è colpa del maggiordomo, magari c’ha ragione la signora che ripeteva amara: “Stava basso nei sondaggi. Stava basso nei sondaggi”.
Sotto l’obelisco sventolavano le bandiere. Pareva una mappa con i confini segnati, con la folla sopra in attesa di catturare un miserabile pezzo di Storia da portare a casa e poi spacciare.
“Be-ne-de-tto. Be-ne-de-tto”. In testa mi risuonavano altre grida. Correva l’anno del Signore 1948 e ancora me lo sento il basco verde. Eravamo centinaia di migliaia in quella marcia. Da Nord a Sud, un fiume verde per gli ottant’anni della Gioventù di Azione Cattolica. Per fermare il comunismo. Altro che libertà di voto. Eravamo pigiati da non respirare, ma con gli occhi bene aperti e lo sguardo rivolto in alto. Poi una voce: “Vita. Vita”. Pio XII si era affacciato, allora: “Vita!” Tutti in coro. In coro! Senza transenne, liberi veramente. A mezzogiorno in punto è comparso. Lo stesso uomo che comprava le lampadine da “Mosca” a Borgo Pio. Prima di diventare Papa. Prima di essere così piccolo e lontano. Solo, pure in mezzo a tutta quella gente. Una solitudine così grande e triste che sembrava la mia.
“Cari fratelli e sorelle…”. Ha ringraziato. Dio l’ha chiamato a salire sul monte, ha spiegato. C’è un’età per tutte le cose. Sai con che sollievo se ne torna a raccogliere le more nei boschi. A fare le passeggiate con il fratello. Invece finirà che se lo terranno da qualche parte dentro quelle mura, sotto vetro, prigioniero del suo abbandono.
Ci tornerei pure io a raccogliere i pinoli nella pineta di Ostia, e a infrattarmi con Gabriella. Gabriella di quarant’anni fa. Che rideva e profumava di sole, mica lo scheletro grigio che era diventato in quel letto sempre disfatto. La bocca aperta e il fiato pesante. Però sono rimasto sempre, fino all’ultimo momento.
Anche sulla neve con Marianna sarebbe stato bello andare, ma non era un invito vero. Tale e quale a quando chiamano il sabato mattina: “Vuoi che ti veniamo a trovare?”. Con quella coda di paglia che hanno da che si sono fatti l’appartamento sopra al centro commerciale: “Guarda papà che quella è Roma quanto Borgo, adesso”. Da me ci potevamo stare: “Venite qua, ci stringiamo”. Ma no, i ragazzi sono grandi e hanno diritto a una stanza ciascuno.
Tutti questi diritti e così pochi doveri. E questa libertà così grande che non sai più che farci. Quindici tra ragazzini e preti ce ne eravamo presi in casa nei giorni dei baschi verdi, a dormire in corridoio sulle coperte piegate, magari in gara per fare bella figura con i vicini, ma quindici, comunque.
“Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum”. In pochi conoscevamo le parole, ma “nella preghiera saremo sempre vicini”. Intanto la finestra era rimasta vuota e pure il sole era scomparso di nuovo. Le campane attaccavano a suonare, mentre le pecore, sciolte, sciamavano in ogni direzione verso la città che tutto ha visto e a niente più crede.
“Tutto qui?”
“E che volevi, il bis?”
Un ambulante si aggirava con dei libretti rossi che parevano una presa in giro: “Papa Ratzinger. Una guida al pontificato”.
Sotto le mura di Via dei Corridori si alzavano i fumi dei chioschi con i panini. Una coppia ci pensava: “Qui abbiamo visto. Mo’ che famo?”.
“Annamo a votà!”.
“Prima a magnà!”
Seguivano sedici cassonetti contati e altrettanti cessi chimici, allora era meglio quando si pisciava per la strada. In fila, la stessa donna che diceva dei sondaggi aveva cambiato idea: “Ha fatto bene. Ha avuto coraggio”.
Io non lo so se ha fatto bene. “Il Papa è Dio in terra. Il Papa non si discute”, mi hanno detto sempre. Ma io sapevo pure che dalla croce non si scende. Dipende dalle croci, evidentemente. Senza certezza di dove metterla la mia, solo quello mi restava da fare.
A Borgo Pio la gente libera dagli ombrelli mangiava la pizza dal cartone. In piazza Catalone un padre tirava via un ragazzino dalla fontana dell’Acqua Marcia: “Sputa! Che è avvelenata”. L’ho bevuta tutta la vita, ma il diavolo ha vinto e tutte le fontane saranno avvelenate. Tranne quella dell’Acqua Angelica su piazza delle Vaschette, dove si giocava a pallone, per quanto pure con quella non è che ci diventi santo.
Via Vitelleschi offriva un altro po’ di libertà in regalo: “Liberi e decisi. Senza paura.” Beati voi! E vota questo, vota quello e vota quest’altro ancora, scritto sopra una sequela di facce. Brutte. Ce ne fosse uno che non mi ha tradito.
Il seggio era silenzioso. Un ragazzo con gli occhiali e la barba mi ha preso il documento, una moretta era addetta ai timbri, un altro ancora mi ha consegnato le schede: “Cabina uno”.
Guardavo le schede e subito quello con la barba è intervenuto a spiegare: “La scheda rosa è per la Camera, quella gialla per il Senato, quella verde per la Regione”.
Pareva il gioco delle tre carte: “Ragazzo, io voto da che tua madre non era una bambina”.
“Cabina uno”, ha ripetuto. Indicandola con quello sguardo che è lo stesso dappertutto: “Vecchio coglione”, sta a significare.
Nascosto lì dentro, cercavo di interpretare quelle tre paginate di simboli, ma i minuti passavano e già annusavo l’ironia di quelli fuori. Invece devono aver pensato a quel film con la Sora Lella, quando al seggio le prende il coccolone. “Signore? Va tutto bene?”.
No, che non va bene. Perché il diavolo ha vinto e ha ucciso la compassione. Perché questi simboli che ho davanti non li capisco, e mi sembrano tutti uguali. Non va bene perché sono vecchio e i miei anni me li sento tutti, ma non c’è più rispetto neanche per questo. Non va bene perché non c’ho una lira e manco più una mano da stringere prima di dormire. Perché sono solo, e oggi nello smarrimento ho visto l’unica comunione. Non vanno bene quelle vostre facce giovani e arroganti, convinti come siete che saprete fare di meglio. Ma nemmeno questa rabbia da vecchio stronzo che sento crescere anche contro me stesso, quando come adesso mi accorgo di aver dimenticato gli occhiali e mi vergogno a dirlo. Perché neanche sono certo di come ho votato. Quindi no, non va bene per niente. E quando dopo giornate come questa, mi affaccio alla finestra e mi ritrovo sto’ faccione davanti, “Ora credici” è solo un’altra delle prese per il culo che non posso evitare.
“Cambiare il Lazio. Liberare Roma”, dice quello a fianco. Ma che vuoi cambiare? Non l’hai ancora capito che Roma non si cambia? Finge, si gonfia e si trasforma come il fiume che l’attraversa. Inghiotte tutto, resiste, ma dai suoi argini non esce. E nell’eterno gioco tra la città e i suoi abitanti, si finisce per sopportare anche questo puzzo che attanaglia, il gufare degli uccellacci che la sovrastano. Me li sento appollaiati sulla testa. In attesa. Torvi e curvi. Aggrappati alle tegole con gli artigli affilati e la faccia degli agenti immobiliari. Nuda proprietà si chiama, questa moderna forma di tormento che ti spinge a pregare di non schiattare per fare dispetto a quelli che pregano al contrario. Lo so che non c’è scampo, ma intanto è ancora il mio questo respiro vivo che mi esce dalle labbra. E da questa finestra all’ombra della cupola, continuo a guardare il mondo aspettando la prossima fumata bianca.
Il Fatto Quotidiano del Lunedì, 25 febbraio 2013