È stata una campagna elettorale poverissima di tematiche politiche. Si è parlato di tasse e si è parlato di mandare tutti a casa. Si sono sentite quantità senza precedenti di promesse, balle, ingiurie, razzismi, proposte bizzarre. Non una sola parola di politica. Soprattutto, non una parola sulle politiche culturali, che capisco che qui da noi sono ritenute una cosa molto meno importante delle imposte, peccato che invece stanno diventando uno snodo su cui l’Europa intende rilanciarsi a livello internazionale e su cui i principali paesi industrializzati del mondo (dalla Germania al Giappone, passando per l’area scandinava e baltica e per il Benelux) stanno investendo sia progettualmente che economicamente.
Qui da noi neppure una parola e, purtroppo, neppure un’idea, visto che i programmi di tutti i partiti e movimenti ne sono stati assolutamente privi, a meno che non si considerino idee sulla cultura alcuni vuoti slogan incidentalmente scritti qui e lì.
Anche quelli che si contrapposero al famoso “con la cultura non si mangia” di Tremonti, non sono stati capaci di offrirci uno spiraglio del contrario e di dirci: è così che la cultura ci fa nutrire e mangiare. Si limitano all’indignazione.
Ma è possibile pensare di costruire un paese senza occuparsi di cultura? È possibile pensare che la partecipazione alla vita pubblica dei cittadini e la maturità dell’elettorato aumentino fomentando l’ignoranza o, peggio ancora, il pregiudizio nei confronti delle attività e dei beni culturali come pervicacemente si sta facendo da noi?
Se vogliamo tornare ad essere un paese normale dobbiamo avere il coraggio di far ritornare la cultura al centro della vita quotidiana, come lo è stato nelle nostre epoche migliori. Dobbiamo ricominciare e riempire di contenuti i nostri prodotti, riportare l’arte dentro la produzione industriale e artigianale, per far sì che i nostri prodotti tornino ad essere ambiti e ricercati.
Dobbiamo riportare la scuola e l’università nella loro giusta dimensione, luoghi per imparare a ragionare e non uffici di collocamento, come sono ridotti oggi, luoghi per sperare di trovare un lavoro. Dobbiamo riportare la musica, la pittura, la poesia, la danza, la fotografia, il cinema dentro la scuola per viverli come un elemento essenziale e vitale della nostra esistenza e non come uno strumento per partecipare a un talent show e poi finire sulle copertine dei rotocalchi, con la gente che ci riconosce per strada.
Dobbiamo riprenderci i musei, i cinema, i teatri, le biblioteche, i siti archeologici e farli tornare ad essere luoghi della socialità, del confronto e della discussione. E dobbiamo riprenderci pure la televisione, depurandola un po’ dai talk show dove si parla senza dire alcunché per tentare almeno di far convivere i pacchi, i premi e le nostalgie degli anni settanta con un intrattenimento che non rimbecillisca e che magari ci insegni qualche cosa, anche, ma non solo, attraverso le emozioni.
Dobbiamo avere il coraggio di ammettere che tutti i libri, quadri, statue, palazzi, drammi, versi e sinfonie prodotte nel passato sono appunto passato e non valgono come un credito per il futuro. Se oggi siamo beceri lo saremo anche domani, e tutti quei libri belli e quei quadri magnifici del tempo che fu non ci salveranno.
Dobbiamo riabituarci alla complessità e a capire che chi ci fornisce soluzioni semplici ed elementari ci sta prendendo per i fondelli o ci sta trattando da deficienti, perché capire le cose è un esercizio che richiede sforzo e fatica e noi non ci sforziamo più.
Una politica che non si pone il problema della cultura è una politica vuota, priva di sentimento, di contenuti, di visione, di sogni, di immaginazione, di concretezza.
La nostra politica è così e il risultato è sotto gli occhi di tutti.
Siamo diventati poveri, di spirito e di tasca!