Refusi e abbagli della commissione medica della Cecchignola di Roma nel valutare i risarcimenti. A Latina il caso di una donna che per 16 anni ha contagiato decine di pazienti. Dagli archivi del processo di Trento spuntano anche i trial clinici sugli umani, tra cui un 12enne
A volte basta un refuso per riaprire il doloroso capitolo del sangue infetto. Prendere albumina per immunoglobulina, scambiare proteina e anticorpo. Altre volte solo l’ostinazione disperata della vittima riesce a farsi largo tra le omissioni del burocrate di turno, la negligenza dei medici e l’indifferenza dello Stato. Per poi scoprire in giudizio – a distanza di vent’anni – che chi ti ha infettato ha continuato a donare sangue, nello stesso ospedale, per i successivi 16 anni, seminando una scia di vittime senza fine. E’ appena successo a Latina. Lo scandalo del sangue infetto continua a riversare casi di errori clinici gravissimi, storie di orrori umani senza giustizia che vanno ad affollare il pianerottolo d’inferno su cui già decine di migliaia di persone stazionano in balia della malattia e in attesa di un indennizzo promesso che non arriva mai. E mentre il processo ai responsabili del più grande scandalo italiano è al palo e rischia la prescrizione, da migliaia di cartelle cliniche depositate agli atti e ancora sigillate emergono nuovi casi di persone infettate e lasciate sole nella loro partita tra vita e morte.
Spuntano anche le prove di test di inattivazione virale condotte dalle case farmaceutiche direttamente sulle persone, laddove si riteneva venissero praticati solo su animali. E invece nel trial clinici c’erano anche bambini, del tutto ignari, poi risultati infetti a distanza di settime o anni. I loro casi si aggiungono alle migliaia di storie dai tratti kafkiani che passano per il contagio rimosso e per il calvario di chi cerca giustizia da una posizione sempre minoritaria che sfida burocrazie pubbliche refrattarie, medici negligenti, commissioni disposte a negare l’evidenza pur di non concedere i benefici della legge 210 del 1992. E così che uomini col camice bianco e politici in doppio petto realizzano sulla pelle dei malati quel “negazionismo di Stato” che da vent’anni accompagna lo scandalo degli emoderivati.
Il 2013 si apre con un nuovo caso di errore medico denunciato dalla Lega italiana dei diritti dell’uomo (LIDU onlus). Riguarda A.P., un paziente di Crotone cui è stato disconosciuto il rapporto causale tra la profilassi con l’emoderivato antitetanico ricevuta nel 1982 all’ospedale di Foggia e l’epatite cronica constatata nel 2009. Un classico caso di “bomba a tempo” inoculata nel corpo di un ignaro cittadino ed esplosa 27 anni dopo, senza colpevoli e senza risarcimento. A mettere il primo paletto sulla via crucis dell’indennizzo di A.P. è stata la sesta Commissione medica ospedaliera della Cecchignola di Roma il 6 dicembre 2011. Il diniego veniva accompagnato dalla motivazione che “l’albumina risulta essere priva di rischio per la trasmissione di agenti infettivi conosciuti” (leggi il documento). Un errore grossolano, perché l’antitetanica si somministra attraverso immunoglobulina e non albumina. Solo l’indomani della denuncia, cioè 13 mesi dopo che era stato commesso, la commissione si riunisce nuovamente e corregge il tiro. Ma l’indennizzo viene negato ancora e sulla base di un secondo errore.
Per motivare il diniego, infatti, il team di camici bianchi riporta un parere dell’Istituto superiore di Sanità del 1995 sul rischio da immunoglobuline. Nel copia-incolla i medici militari lasciano però per strada metà del parere, casualmente la più favorevole al paziente (parere originale – verbale rettificato). La trascrizione parziale si porta dietro il terzo errore: fa riferimento a trattamenti di inattivazione “recenti”, ma quel parere era del ’95 mentre il paziente sotto esame aveva subito l’antitetanica nel 1982 e non può aver beneficiato dei progressi di inattivazione virale che sarebbero arrivati solo 13 anni più tardi. A.P. non si arrende e presenta l’ennesimo ricorso mentre la Lidu chiede di rimuovere i componenti della Cmo della Cecchignola e i funzionari del ministero della Sanità. “Hanno commesso un errore dietro l’altro per negare il diritto a una compiuta valutazione medico-legale”, sostiene il presidente Lidu Aldo Barbona. E forse non è la prima volta. Anche Eugenio Sinesio, tra i consulenti tecnici dei pm di Trento che per primi indagarono sullo scandalo emoderivati, lo sospetta: “Data l’impostazione e il tono della valutazione medico legale non è improbabile che sia stata usata in altri casi”.
Già, quante volte è accaduto? Impossibile dirlo. Sul caso specifico il fattoquotidiano.it ha avanzato una richiesta di delucidazioni al Ministero della Salute che in un mese di tempo non ha fornito alcuna risposta. E del resto non è né il primo né l’ultimo caso. Proprio pochi giorni fa da Latina è emerso quello di una cinquantenne di Pontinia che ha contratto l’epatite C nel lontano 1984 a seguito di una trasfusione infetta. La vittima lo ha scoperto solo nel 2006, 22 anni dopo, e si è rivolta all’avvocato Renato Mattarelli. Istruendo la pratica e trattandola nel dibattimento al Tribunale di Roma il legale ha scoperto l’imponderabile: la relazione del Ctu nominato ha rivelato non solo la certezza del nesso di causalità tra trasfusioni e infezione epatica ma anche che una delle donatrici infette ha continuato a donare il plasma per ben 16 anni. “Dalla relazione dell’Asl di Latina – spiega in una nota l’avvocato Mattarelli, che da due anni si occupa del caso – si evince che ha continuato a donare il sangue fino a quando è stata “definitivamente sospesa dalla donazione”. L’esito della causa è segnato, ma resta il problema delle persone che hanno continuato a ricevere il sangue infetto. La domanda è: come è possibile che dopo il 1984 nessuno ha mai sospeso la donatrice con l’HCV visto che già dal 1990 era doveroso rilevare nel sangue segni e valori epatici oltre la norma? Il rischio, anzi la certezza, è che per almeno 16 anni le donazioni della donatrice abbiano infettato decine e decine di persone. Molte delle quali ancora non lo sanno, visto che l’epatite C è una malattia silente e cioè si può manifestare anche a distanza di decenni”.
Tra le carte portate da Trento a Napoli per imbastire il processo ci sono migliaia di cartelle cliniche rimaste a lungo sigillate. La loro apertura, spesso rimessa alla buona volontà delle associazioni, fanno emergere anche vicende inedite, come lo spregiudicato comportamento delle multinazionali dell’oro rosso nello sperimentare prodotti antivirali direttamente sull’uomo, infettando cavie del tutto ignare. Siamo negli anni Ottanta, le farmaceutiche stanno testando metodi per l’inattivazione virale dell’epatite. Per il mondo, ufficialmente, lo fanno solo sulle scimmie. Ma non è così. Dai faldoni convogliati a Trento spunta infatti la cartella clinica di un minore (leggi il documento) che dimostra come la sperimentazione venisse condotta anche su gruppi umani direttamente in ospedale, bimbi compresi. E’ il 13 gennaio del 1984 quando un ragazzino di Catanzaro di 33 chili viene ricoverato in ospedale a seguito di un trauma con rigonfiamento del ginocchio. A stretto giro gli viene diagnosticata un’emofilia non severa mai emersa prima. Ma il bimbo non viene solo medicato. Su di lui, “vergine” da qualsiasi trattamento con emoderivati, dopo tre giorni viene sperimentato un antiemorragico, il Kriobulin VI (cinicamente riportato in cartella come “virus inattivato”). Il 23 sarà dimesso con due confetti di Voltaren, ma a un successivo controllo, il 16 aprile, le analisi lo fotograferanno ormai positivo ai markers dell’epatite prima assenti. E’ stato infettato. E certamente non è il solo. Se sia vivo o morto, nessuno lo sa.