Il particolare emerso al processo di Trapani per concorso esterno contro l'ex sottosegretario all'Interno riconfermato a Palazzo Madama con il Pdl. Diversi collaboratori di giustizia descrivono i rapporti della sua famiglia con Ciccio e Matteo Messina Denaro
Tonino D’Alì, trapanese, banchiere, classe ’51, torna a sedere a Palazzo Madama, e questo anche se è sotto processo accusato di avere favorito la mafia del Belice, quella potente capeggiata dal latitante Matteo Messina Denaro e prima ancora dal padre di questi, don Ciccio Messina Denaro, il “patriarca” di Cosa nostra belicina. D’Alì è tra i 14 senatori appena eletti dal Pdl in Sicilia. Trapani resta feudo elettorale suo e del partito, resiste anche all’avanzata grillina.
Il prossimo 22 marzo, dinanzi al gup del Tribunale di Palermo Giovanni Francolini, riprenderà il rito abbreviato. L’accusa, sostenuta dai pm Guido e Tarondo, è quella di concorso esterno. Il senatore, già sottosegretario all’Interno, avrebbe aiutato i boss a fare affari, appalti e riciclaggio attraverso la vendita fittizia di un terreno per 300 milioni di vecchie lire. I due padrini Messina Denaro hanno lavorato da campieri nei terreni di Castelvetrano dei D’Alì, in contrada Zangara. D’Alì si difende dicendo che Francesco Messina Denaro se lo trovò lì, ma resta il “vizio”: la Dia di Trapani ha accertato che oggi “campiere” nei terreni del fratello del senatore, Pietro D’Alì, è Vincenzo La Cascia, mafioso ed estortore.
Rapporti mai chiusi con i Messina Denaro: c’è un baglio, sempre sui terreni di Zangara, che resta cointestato ai D’Alì e agli eredi, vedova e figlie, di don Ciccio. In questo baglio, per il pentito Giovanni Ingrasciotta, il neo senatore D’Alì nel 1994 avrebbe incontrato il latitante Matteo Messina Denaro. La difesa ha prodotto sentenze dove il nome di D’Alì non compare, ma nel processo ci sono le dichiarazioni dei pentiti. “Pieno è stato il sostegno elettorale di Cosa nostra trapanese” ha riferito l’imprenditore Nino Birrittella, ex patron del Trapani Calcio e titolare di un’azienda che produce ferro: “Fu Francesco Pace (boss trapanese ndr) a dirmi di votarlo e Francesco il figlio di Vincenzo Virga (capo mafia dal 1982 ndr), mi indicò (come ordine ndr) che bisognava votare D’Alì”. Per il senatore convention elettorali dentro opifici presenti mafiosi di rango.
E il pentito di Mazara Enzo Sinacori, “ombra” di Matteo Messina Denaro: “No, ma non c’era neanche bisogno di fare la domanda, se qualcuno aveva bisogno, poteva andare a chiedere ai Messina Denaro di intercedere presso i D’Alì”. Poi gli appalti: caserme dei carabinieri, Funivia di Erice. Nel 2005 a Trapani c’era un intervento da 40 milioni per il porto, e secondo il collaborante Birrittella si sapeva che a vincerlo sarebbe stata la trapanese Coling degli imprenditori Francesco e Vincenzo Morici, padre e figlio: “In occasione della richiesta da parte di quest’ultimo di un preventivo per la fornitura di ferro… informai Morici che anche altre imprese gli avevano chiesto preventivi per lo stesso appalto e questi mi invitò a non rilasciare preventivi a nessun altro affermando: ‘per il rapporto che mio padre ha con il senatore D’Alì’ puoi stare certo che l’appalto sarà aggiudicato a noi”.
E così fu. D’Alì ha annunciato che mafia e corruzione saranno i temi del suo nuovo impegno al Senato, e Matteo Messina Denaro? “Mi auguro che questo mascalzone venga presto catturato”. A Trapani tutt’al più ai mafiosi si dà del malandrino come ha detto a degli studenti il sindaco Vito Damiano ex generale dell’Arma e che D’Alì a maggio scorso ha fatto eleggere primo cittadino. Il precedente sindaco, Mimmo Fazio, gli fece la cortesia di negare la cittadinanza onoraria al prefetto Fulvio Sodano che con D’Alì nel 2003 si era scontrato sul terreno “minato” dei beni confiscati.