il regista di Casola Valsenio a Visioni Italiane con il suo ultimo corto dedicato al bizzarro compositore bolognese cinquecentesco: "Sfruttiamo il potenziale metafisico della natura dell'Emilia Romagna per fare cinema. Meno Pranzi di Babette, Se David Lynch avesse visto i calanchi dell'Appennino sarebbe corso a girare qui"
In principio fu il musicarello. Un’amabile conversare su una tesi di laurea che ebbe per protagonisti Rita Pavone, Gianni Morandi, Rocky Roberts, Albano e Romina. Dopo è stato il turno del surreal-dadaismo del Pavonificio Ghinazzi, factory felsinea ora defunta, o spennata, da cui uscirono Fuoco di Russia (premio Dams 2004) e Lola (2005). Infine i due filoni si sono fusi con la teoria dei quanti, e tra il 2009 e il 2011, ecco la trilogia de I Principi dell’indeterminazione (I Principi – Entropica – Il Boia) che ottiene perfino un finanziamento del Ministero dei Beni Culturali.
Questo il ruolino di marcia di Fabio Donatini, regista di Casola Valsenio, classe ’79 in questi giorni a Visioni Italiane con i sette minuti de L’Armata Banchieri. “Un committente ha chiesto di ricordare il compositore bolognese, Adriano Banchieri, vissuto tra fine cinquecento e inizio seicento a Bologna”, spiega Donatini al FattoQuotidiano Emilia Romagna, “dall’idea iniziale delle difficoltà di un gruppo musicale che canta a cappella le arie del Banchieri, siamo arrivati a come è scaturita dalla mente del nostro una composizione assurda. Banchieri è ubriaco, stanco, si addormenta sulla pianola, e sogna. Volevo raccontare dell’impulso fondamentale dei sogni nella vita creativa, della via di fuga dell’inconscio per cancellare la banalità e la prevedibilità della veglia”.
Questa è comunque la tua terza o forse quarta partecipazione a Visioni Italiane…
“Ci sono molto affezionato. Significa che si può essere piccolissimi profeti in patria. La mia città, provincia, regione non mi sottovaluta nonostante giri cose particolari. Mi fa sentire meno solo professionalmente e umanamente. Diciamo che però alla kermesse manca forse l’osare la selezione verso qualche lavoro più sperimentale, più cinematograficamente scorretto. In generale, poi, la manifestazione dovrebbe permettere all’Emilia Romagna di lanciare il proprio cinema. Qui ci sono location strepitose, lo dicono il cinema passato e la fotografia di Luigi Ghirri, per esempio. C’è un potenziale onirico delirante. 120 Pranzi di Babette oscurano il potenziale metafisico che possiamo offrire. Se David Lynch vedesse i calanchi degli Appennini rimarrebbe qui a girare”.
La Film Commission dell’Emilia Romagna oramai la diamo per persa…
“Ci sono problemi risolvibili e non risolvibili. La Film Comission è un problema non risolvibile. Cerchiamo strade alternative, è l’unica possibilità. Due, tre produttori lungimiranti in Regione ci sono. Quindi cerchiamo i privati locali, ma confrontiamoci con il mondo della produzione romana. L’importante è non andarsene, altrimenti chi la racconta più per immagini questa nostra terra?”
A un 15 enne di oggi come spiegheresti la trasformazione del cinema tradizionale che si studia all’università rispetto a ciò che è diventato oggi?
“I 15enni non sono il mio forte, ma vorrei che lo fossero. E vorrei spiegargli il valore di nuovo genere immenso: il mockumentary. Rovescia le certezze del documentario. Una sorta di verità, non del tutto vera, non del tutto falsa. La fiction classica è diversa, il mockumentary è più raffinato, usa le strategie della finzione, usa il documentario per mentire spudoratamente”.
Capostipiti?
“Rec, District 9, Il Mundial dimenticato, Borat. Ai 15enni piacciono. Hanno tutte le strategie della tv: l’intervista, le immagini di repertorio, gli articoli di giornale. E’ un linguaggio più adotto a loro, lo ricevono prima di un 50enne. Poi voglio dire, un film come Il Mundial dimenticato ha tutto: la storia d’amore, il fatto storico mai esistito, la sperimentazione grafica, Baggio che dice bugie. Solo Borges può stargli alla pari”.
Semiotica addio?
“La semiotica è un principio che vuole solo catalogare. Già Zelig di Woody Allen per Umberto Eco sarebbe letale, si addormenterebbe. Il mockumentary taglia i ponti con i punti di riferimento del passato. Volendo possiamo anche definirlo simile alla Nouvelle vague, perché rompe, spezza con la tradizione”.
Il Divo di Paolo Sorrentino fa parte del genere?
“Sorrentino è figlio di un gruppo di lavoro eccellente: produttori, attori, sceneggiatori, distributori. Ne Il Divo l’aderenza al reale è tanta. Chi ama il mockumentary ama buttare un po’ tutto in vacca”.
Il concetto di “autore” esiste ancora?
“Esiste. Ma l’autore è tale se supportato da un gruppo di artigianato raffinatissimo. L’autore da solo non va da nessuna parte. Ad ogni modo il cinema europeo e internazionale continuerà sempre ad avere bisogno dell’ “autore”, come ha bisogno del cinema di genere, di quello da multisala, ecc…”
Con chi vorresti lavorare per un mockumentary tuo?
“Come attori: Toni Servillo, Ivano Marescotti e Gabriele Spinelli. Ma anche Paolo Cevoli in un ruolo pseudo drammatico. Non vorrei mai avere a che fare, invece, con la Littizzetto”.
Un consiglio alla neonata Fondazione Cineteca di Bologna?
“Per il bene di tutti gli spettatori sarebbe bello vedere in Piazza Maggiore d’estate un film tragicomico o demenziale. Luci della ribalta resta un capolavoro che un giorno avranno visto tutti, ma un film tragicomico o demenziale girato all’interno della cosmologia appenninica emiliano-romagnola farà ridere tanti anzianotti inglesi, svedesi e tedeschi. Ne sono certo. Il tempo mi darà ragione”.