“Assolti perché il fatto non sussiste”.

Un pugno di caratteri per mettere un punto ad una vicenda giudiziaria tutta italiana, durata oltre sei anni e nell’ambito della quale i Giudici – quelli del Tribunale prima e quelli della Corte d’Appello dopo – hanno detto tutto ed il contrario di tutto.

Google [n.d.r. o meglio i suoi quattro manager] è colpevole per aver permesso ad un utente di violare la privacy di un altro utente senza fare abbastanza per impedirglielo, aveva detto nel 2009, dopo tre anni di processo, il Tribunale di Milano.

Google è innocente perché non ha alcun obbligo di impedire che i suoi utenti offendano terzi attraverso i propri servizi o trattino illecitamente i loro dati personali, scrivono, ora – dopo altri tre anni di processo – i Giudici della Corte di Appello.

Sei anni – mese più, mese meno –, centinaia di ore di indagine degli investigatori ed altrettante dei giudici e degli avvocati, spese legali a tanti zeri e, soprattutto, un enorme punto interrogativo sulla responsabilità dei tanti soggetti che in Rete consentono la pubblicazione di contenuti altrui.

E’ questa la sola riflessione che lascia un retrogusto amaro nello sfogliare le 33 pagine della Sentenza con la quale, nei giorni scorsi, la Corte d’Appello di Milano ha ribaltato le conclusioni delle 111 pagine della Sentenza di primo grado con la quale quattro super dirigenti di Google erano stati condannati a sei mesi per non aver impedito ad una ragazzina di pubblicare online un video di una manciata di secondi che ritraeva altri ragazzini intenti ad offendere un loro compagno di scuola meno fortunato di loro in quanto down, mettendo così in piazza [n.d.r. quella virtuale] la patologia del ragazzino e, dunque, un dato sensibile di quest’ultimo.

Un retrogusto amaro perché per sei lunghissimi anni, in giro per il mondo, nei centinaia di altri Paesi nei quali Google mette a disposizione lo stesso servizio, si è parlato di un “caso Italia” e perché, nel nostro Paese, migliaia di giovani talenti, aspiranti emuli dei fondatori statunitensi di Google, Facebook, Twitter e degli altri colossi della Rete, anziché dar spazio alla loro creatività ed intraprendenza si sono, probabilmente, ritrovati a scegliere di soprassedere perché se qualcuno li avesse denunciati come accaduto ai quattro supermanager di big G, loro non avrebbero avuto le spalle sufficientemente larghe né le tasche abbastanza profonde per affrontare la giustizia.

Ma alle conseguenze negative per il sistema Paese di un approccio preoccupante alle “cose della Rete” varrà la pena di iniziare a pensare domani.

Oggi è il giorno della soddisfazione per una decisione, finalmente giusta, che stabilisce, per la verità, l’ovvio ovvero che chi mette a disposizione uno spazio sul web perché altri vi pubblichino dei video non può considerarsi titolare del trattamento di tutti i dati personali contenuti nei video caricati online dagli utenti e non può, conseguentemente, ritenersi obbligato a porre in essere alcun adempimento a tutela della privacy dei terzi né, tantomeno, ad evitare che i propri utenti la violino.

Una conclusione che non cambia – ed i Giudici della Corte di Milano lo mettono nero su bianco tra le righe della loro Sentenza – se a farlo è un gigante del web che persegue una finalità lucrativa.

Ma è un altro il passaggio della Sentenza della Corte di Appello che, forse, consente di riequilibrare le tante conseguenze negative prodotte dalla precedente decisione.

Ecco il passaggio che vale la pena riportare testualmente e tenere bene a mente in futuro: “…demandare ad un internet provider un dovere/potere di verifica preventiva [n.d.r. dei contenuti prodotti e caricati dagli utenti] appare una scelta da valutare con particolare attenzione in quanto non scevra da rischi, poiché potrebbe finire per collidere con forme di libera manifestazione del pensiero”.

Difficile dire più chiaramente ciò che, pure, decine di volte nelle aule dei nostri Tribunali viene dimenticato: considerare un intermediario della comunicazione responsabile per i contenuti dei propri utenti può indurre quest’ultimo ad attivare forme di “censura privata” autodifensiva che spazzerebbero via nello spazio di poche settimane una delle più grandi opportunità che la Rete ha consegnato alla comunità globale ovvero l’effettiva libertà di comunicare i propri pensieri e le proprie opinioni, una libertà ambita da secoli, astrattamente conquistata e riconosciuta da molti ma, mai, sin qui, davvero esercitabile da tutti.

Forse, se sapremo trarre insegnamento da questo pugno di caratteri nascosto – ma non troppo – nella decisione della Corte d’appello di Milano, i sei anni di processo ed i suoi effetti sul sistema del Paese, non saranno stati inutili.

 

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