Il tribunale di sorveglianza di Bologna ha deciso di mandare in carcere anche Enzo Pontani, l’agente condannato per omicidio colposo a 3 anni e 6 mesi (ridotti a 6 mesi), per la morte di Federico Aldrovandi. Gli altri tre agenti di Polizia Luca Pollastri, Monica Segatto e Paolo Forlani sono già in carcere da fine gennaio scorso.
Per Pontani l’udienza davanti al giudice, dove il suo avvocato Giovanni Trombini aveva chiesto l’affidamento ai servizi sociali o i domiciliari, si era tenuta martedì mattina. All’uscita dalla stanza dei giudici un applauso di incoraggiamento dei colleghi poliziotti aveva accolto Pontani.
“Non è ancora giustizia completa, ora mi aspetto che le commissioni disciplinari prendano dei provvedimenti pesanti percvhé queste persone vanno licenziate”, a parlare a caldo al Fatto quotidiano una volta appresa la notizia è Lino Aldrovandi, il padre di Federico, da sempre in prima linea insieme alla madre del ragazzo, Patrizia Moretti perché i poliziotti venissero puniti.
I quattro agenti ora in carcere, condannati per un fatto del settembre 2005, fino a pochi mesi fa erano in servizio. ”Le parole che usano i giudici verso di loro sono pesantissime. Non possono tenere in Polizia gente per le quali il tribunale parla di noncuranza del dolore e della sofferenza della vittima a lungo percossa e contenuta fino a morirne”, dice ancora Lino Aldrovandi, che che è un ispettore di Polizia municipale. ”Non si può morire anche se si è delinquenti, figuriamoci Federico che quella mattina non aveva fatto assolutamente niente”. Poi Aldrovandi, che è un appartenente alla Polizia municipale, conclude: ”Non si possono tenere in Polizia persone così”.
Martedì una trentina di agenti aderenti al Sap, il Sindacato autonomo di Polizia, aveva fatto un presidio di solidarietà a Pontani appena fuori dall’aula del tribunale di sorveglianza di Bologna: ”È triste che nel nostro paese un servitore dello Stato, chiamato ad aiutare una persona che stava arrecando a se stesso dei danni, interviene e viene ritenuto colpevole di una negligenza, venga per questo condannato e incarcerato. Sono 40 anni che nella giurisprudenza è stato abrogato il carcere per i reati colposi”, aveva detto Gianni Tonelli, presidente del Sap, all’uscita dall’udienza.
Le motivazioni del giudice. Nella decisione del tribunale di sorveglianza hanno pesato i comportamenti tenuti dal poliziotto sia durante la colluttazione fatale che successivamente alla morte del diciottenne. Fu lui, al telefono con la centrale mentre il personale del 118 constatava il decesso di Federico, a dire la famosa frase “l’abbiamo bastonato di brutto per mezz’ora”. Nel processo di primo grado spiegò quelle parole come “solo modi di dire”.
Nei minuti precedenti Pontani e i suoi colleghi affrontarono “armati di manganelli (due dei quali poi addirittura risultati rotti, ed in primo tempo occultati), mediante pesantissimo uso di mezzi di violenza personale” il giovane. E proseguendo nel pestaggio anche quando “era ormai a terra e nonostante le sue invocazioni di aiuto, fino a sovrastarlo letteralmente di botte (e anche calci)”.
Dopo aver provocato quella tragedia i poliziotti “avrebbero dovuto portare un contributo di verità, ad onta delle manipolazioni dei superiori”, mentre invece non hanno voluto “squarciare il velo della cortina di manipolazioni delle fonti di prova, tessuta sin dalle prime ore di quel 25 settembre”. Quindi “violenza ingiustificata prima “ e “dissimulazione del vero poi” che portarono “discredito per il Corpo di Polizia cui ancora essi appartengono”.
Da questi dettagli il tribunale di sorveglianza ricostruisce la personalità del condannato, che evidenzia “pesanti carenze, tanto più gravi per un esperto agente di Polizia” e “noncuranza per il dolore e la sofferenza della vittima, a lungo percossa e contenuta, fino a morirne”.
Per i giudici di sorveglianza le stesse dichiarazioni rese da Pontani all’udienza del 26 febbraio lasciano intravedere “un atteggiamento ancora di difesa del proprio operato” che gli ha impedito “in tanti anni trascorsi fino ad ora di mettere in atto anche solo semplici gesti anche una semplice lettera…), per manifestare, come avrebbe ben altrimenti potuto, senza clamore e senza risalto mediatico, la propria consapevolezza della vicenda pensale e umana, nei riguardi dei familiari della vittima”.
In conclusione, il tribunale rigetta l’istanza del poliziotto, “atteso che nessun avvio di percorso di rieducazione e recupero può in concreto ipotizzarsi in tale quadro”.
di David Marceddu e Marco Zavagli