Analisi dei risultati elettorali in Regione Lombardia su la 7. Enrico Mentana chiede a Peter Gomez: «come mai il Pd milanese, ancora una volta, non riesce a trovare un candidato che sappia vincere?» e il direttore de ilfattoquotidiano.it – che è uno spiccio – risponde andando subito al sodo: gli ex Dc ed ex Pci locali – nel tempo – hanno fatto fuori tutti quelli che potevano dare ombra a una nomenklatura ben insediata negli affari.
Certo, non per niente da queste parti c’era la massima concentrazione di Miglioristi, quelli che si accodavano da subalterni al craxismo dei cosiddetti “craxatori”. Insomma, la “sudditanza psicologica” della dirigenza di centrosinistra all’ideologia dei “dané” è certamente un fattore in gioco, ma tutto ciò non basta a spiegare quella cupio dissolvi per cui nelle varie tornate si sono scelti candidati con ben in evidenza le stigmate del perdente: l’idea bislacca che – per vincere – una Sinistra in crisi di identità deve appoggiare il solito “improvvisato” di bella presenza e basso profilo (il presunto “candidato omnibus”). Dunque, standing da buona borghesia delle professioni o dell’impresa, con giuste frequentazioni e reddito adeguato, ma sempre accompagnato da un atteggiamento naif nei confronti della politica e una radicata allergia riguardo alle strategie per conquistare il consenso. Un po’ di nomi: l’ex presidente nazionale dei Giovani Industriali Aldo Fumagalli, massacrato da un non propriamente colosso quale il poi sindaco smutandato Gabriele Albertini, il prefetto Bruno Ferrante, messo fuori gioco prima ancora di incominciare dalla cultura municipalistica del luogo che odia i simboli del centralismo romano, ora il giovane Ambrosoli, finito nelle fauci della faina Bobo Maroni; non propriamente un rapace del Varesotto e per di più sfiorato (eufemismo!) dalle malefatte della cosiddetta “Lega ladrona”, non meno che impiombato da alleanze imbarazzanti.
Sistematicamente questi candidati della città perbene vengono fatti a brandelli da marpioni e damazze. A dimostrazione che il problema è anche ambientale, di cultura politica del luogo. Come se il genius loci milanese fosse affetto da una sorta di emiplegia che blocca metà del cervello collettivo, tanto da non distinguere la politica dall’amministrazione. Vizio che secondo alcuni risalirebbe alla lontana dominazione austriaca, quando l’Impero lasciava piena autonomia gestionale alle élite locali, fermo restando che le strategie “alte” si facevano a Vienna. Da qui il mito rinunciatario del Comune ben amministrato; che diventava ripiegamento entro le cinte dei Navigli, mentre altre erano le città a “pensare spazio”, come Torino.
Difatti l’Unità d’Italia nasce sotto la Mole, mica all’ombra della Madonnina. Questa città civile ma intimamente prepolitica diventa così facile terra di conquista dei barbari venuti da fuori; rozzi ma in possesso di più efficaci tecnologie del potere: dai falchetti brianzoli, scesi in città a “tirare pacchi” come il Berlusconi, ai lumbard delle valli; ai milanesizzati dell’immigrazione anni Cinquanta, che impongono le arcaicità del familismo a clan. Una città, più che permeabile, disarmata davanti alle irruzioni esterne per quella congenita prepoliticità di cui si diceva; che difatti trova difficoltà persino a individuare fenomeni infinitamente più inquietanti, come quello del radicamento nel suo territorio della malavita organizzata dei decenni scorsi.
Certo, una città che conserva la massima concentrazione di ricchezza, ma che proprio per la sua intrinseca vocazione alle semplificazioni aziendalistiche pensa di risolvere tutto con i marchingegni consulenzialesi del marketing. In un contesto di tal genere la Sinistra avrebbe dovuto impegnarsi in un alto lavoro pedagogico e di selezione che, causa il complesso dell’ospite in casa d’altri da cui è affetta, non è mai stata in grado di svolgere. E i risultati si vedono, nell’incapacità di allevare classi dirigenti.