Ai tempi della scuola l’Australia per lui era il continente da scoprire. Visitarlo o meglio, viverci, era uno dei tanti sogni da realizzare, quello più improbabile. Invece ci è riuscito. Oggi Simone Pirelli, 26 anni, romano, vive a Sidney. In Italia, oltre alla famiglia, ha lasciato un contratto a tempo indeterminato da programmatore in una grande azienda, uno stipendio assicurato e tante piccole comodità. “A Roma avevo il posto fisso e vivevo in casa dei miei. Voleva dire bollette pagate, un piatto sempre caldo ad aspettarmi e nessuna preoccupazione. Avevo i soldi che mi servivano per vivere e per divertirmi, la macchina comprata con i miei soldi e se in casa si rompeva la lavatrice non dovevo preoccuparmi”. Da un giorno all’altro decide di mollare tutto per trasferirsi in Australia.
Prepara la partenza in fretta, perché ogni giorno che passa potrebbe fargli cambiare idea. “Tutto sta nel mettere il sedere su un aereo, è come un traguardo che sta lì davanti a te. Tu fai tanto per arrivare al momento della partenza però l’ultimo metro ti potrebbe fregare, perché arrivano i dubbi, le incognite. Per questo qualche settimana prima di partire sono andato dal mio capo a chiedere l’aspettativa. Era un modo per sentirmi sicuro nel caso le cose non fossero andate bene in Australia. Mi disse che mi mancavano sei mesi per maturarla. Il giorno dopo mi presentai con la lettera di dimissioni”.
Il primo impatto con il paese non è incoraggiante. Ci sono le difficoltà con la lingua, il costo della vita più alto dell’Italia e la delusione di scoprire che la realtà è molto diversa da come l’aveva immaginata. “Appena atterrato mi sono ritrovato all’estrema periferia della città, in una zona degradata, abitata solo da orientali. La casa me l’ero trovata prima di partire, ma una volta lì ho scoperto che si trattava di un posto letto in una stanza da condividere con un ragazzo del Kazakistan e uno della Slovenia. Nello stesso appartamento c’erano anche due giapponesi e uno studente delle Repubblica Ceca”. Per fortuna accanto alle difficoltà arrivano le prime sorprese e la differenza con l’Italia diventa ancora più netta. “Alcuni italiani che avevo conosciuto mi indicarono gli uffici dove andare per fare i documenti. In due giorni avevo tutti quello che mi serviva, compresa la tessera sanitaria. Il terzo giorno avevo anche un lavoro”.
Mentre studia per imparare l’inglese, inizia a lavorare in un ristorante, ma le condizioni non sono ottimali. La paga di 13 dollari l’ora è considerata una miseria rispetto al costo della vita. Cambia sette locali in poco più di un anno, prima come lavapiatti, poi aiuto cuoco, infine vero e proprio chef. “Quando ho iniziato a stare dietro ai fornelli non sapevo neanche cuocere una bistecca. Oggi gestisco un’intera cucina in un ristorante italiano. Ho imparato a cucinare e guadagno anche bene”. Anche se è passato poco più di un anno la vita che faceva a Roma sembra lontana anni luce, così come l’idea di tornarci. “Tante cose dell’Italia mi mancano, ma qui ho davvero la sensazione di poter contare solo su me stesso e, nel bene o nel male, mi sento libero. Se penso a una condizione che assomiglia alla vita che avrei voluto vivere è questa, è adesso”. E cosa direbbe ai suoi coetanei che in Italia inseguono il posto fisso e vivono come una condanna la precarietà o la prospettiva di cambiare paese? “Due cose: la prima è che è molto più facile di quanto si pensa, la seconda è che siamo italiani, cresciamo in un paese dove le regole ce le facciamo noi e se ci va le rispettiamo. Questo ci dà una grande forza, la capacità di cavarcela ovunque andiamo, di riuscire a fare qualcosa di bello, spesso di cambiare le cose”.