C’è soprattutto un’arma che i mafiosi usano per garantirsi silenzio e impunità: il legame tra una mamma e i suoi figli. Perché una donna che decide di collaborare con la giustizia viene posta di fronte al dilemma più lacerante: continuare a vivere una vita di oppressione e di paura, oppure separarsi dai propri figli, senza poterli più vedere, né sentire.

La copertina de "L'Italia quaggiù"

Nonostante questo sono tante le donne vissute dentro famiglie mafiose che decidono – spesso in un impeto di disperazione – di presentarsi alle forze dell’ordine per denunciare soprusi vissuti e crimini di cui sono state testimoni. Oggi due libri raccontano le loro storie: Fimmine ribelli. Come le donne salveranno il paese dalla ’ndrangheta” (ed. Rizzoli) scritto da Lirio Abbate, giornalista de L’Espresso che la mafia, oltre a raccontarla, l’ha toccata con mano attraverso l’uccisione di un cugino e le minacce personali ricevute dopo la pubblicazione de “I complici”, libro scritto con Peter Gomez nel 2007 per denunciare le coperture di Bernardo Provenzano. E “L’Italia quaggiù. Maria Carmela Lanzetta e le donne contro la ‘ndrangheta” (ed. Laterza) di Goffredo Buccini, firma de Il Corriere della Sera.

«Una terra lacerata da una guerra impietosa alimentata dall’odio e dalla sete di denaro e potere»: è la Calabria raccontata da Abbate attraverso la storia delle donne di Rosarno, un luogo dove vigono ancora, nel silenzio generale, terribili «leggi arcaiche e retrive», come il delitto d’onore. Che punisce con una sentenza di morte, spesso eseguita per mano di un fratello o di un parente, una donna che tradisce o si innamora di un altro.

La copertina del libro di Lirio Abbate "Fimmine ribelli"

Le donne di Rosarno, nate in famiglia mafiose o vicine alla mafia, vivono un copione tristemente simile: interrompono la scuola presto, si sposano giovanissime, magari sotto la pressione di padri per i quali il matrimonio è un’occasione di arricchimento e protezione (padri che hanno due cuori, «la figlia e l’onore»). Fanno figli ancora adolescenti e spesso vivono in una condizione di estrema solitudine, perché i mariti escono o entrano di prigione.

Alcune di loro, scrive Abbate, riescono a «modellarsi sul codice, a coincidere con la parte assegnate», altre subiscono «a testa china e labbra strette, perché è così che è stato loro insegnato e perché ormai hanno perso la forza anche solo di sognare un futuro diverso». Ma ci sono tante altre, come Rosa Ferraro e Giusy Pesce, che «decidono di stracciare il copione e provare a costruirsi una vita che sia davvero la loro». Sono queste le donne che la ‘ndrangheta teme di più: per quello che possono rivelare, ma anche per «la forza imitativa di una scelta di rottura manifesta», che sgretola l’immagine di compattezza della struttura mafiosa.

Per loro comincia una fase psicologicamente terribile, strette tra il terrore di subire violenze, il timore di perdere i propri figli, ma anche la paura di tornare indietro, sotto le pressione dei familiari che spesso usano ricatti affettivi per farle ritrattare. Il prezzo pagato è estremo. Chi ha tradito il marito può essere uccisa (come Angela Costantino), persino se vedova, come è accaduto a Maria Teresa Gallucci. Altre pagano con l’assassinio del nuovo compagno, come Simona Napoli. Altre ancora, si uccidono, per «l’esasperazione e il senso di impotenza», come Maria Concetta Cacciola o Tita Buttafusca. Magari ingerendo acido muriatico, «perché l’acido brucia la colpa, e chiude per sempre la bocca a chi ha osato rivelare segreti e tradire». Eppure, anche quando l’esito è drammatico le loro scelte lasciano un segno manifesto. Per la comunità intorno a loro, ma soprattutto per le loro figlie e per tutte le giovani donne. Che ancora oggi escono accompagnate e non possono avere un profilo su Facebook, ma sempre di più sono consapevoli che non esiste un destino già scritto.

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