“Ho scelto questo lavoro perché mi faceva viaggiare”. Non poteva che essere questo il biglietto da visita di quello che chiamano “il cuciniere errante”. Carmelo Chiaramonte ha 43 anni ed è uno chef senza stellette; il suo nome sulle guide non lo troverete, eppure è lui che ha rappresentato l’Italia agli Oscar parigini del libro di cucina, si è piazzato secondo con “Arancia” e poi se n’è tornato ai suoi giri per il mondo, e alla sua base – mai cambiata – la Sicilia, che continua a studiare con una passione meticolosa e attenta, ai limiti dell’adorazione. Nasce a Modica, in provincia di Ragusa, quattro colline impreziosite dall’architettura barocca, ma da adulto si sposta a Pedara, alle pendici dell’Etna. Qui si inebria di cultura popolare, dialetto, ricette antiche, rimedi naturali, gastronomia e antropologia intrecciate senza un ordine apparente.
Al Paris Cook Book Fair hai gareggiato con “Arancia. Percorsi siciliani di cultura, natura e gastronomia”: la cucina sembra quasi il pretesto alla base del libro…
È stata una ricerca lunga e collettiva, che ha portato a un saggio completo sull’ingrediente. L’arancia non è solo il frutto dal quale facciamo la spremuta: abbiamo tirato fuori qualsiasi notizia valida minacciata di finire nell’oblio. Nell’arte, nell’artigianato, nel cinema: capitolo dopo capitolo si scopre che le arance sono un po’ ovunque.
Persino nel Cenacolo di Leonardo…
Nel gioco dell’intreccio delle mani dipinte nell’Ultima Cena appaiono pezzi di arance a fettine, accoppiate con le anguille: si tratta di un piatto agrodolce della cucina rinascimentale. Oggi spremiamo il succo di limone sui pesci, ma su quelli di acqua dolce si sposa meglio l’arancia, infatti in Sicilia veniva usata anche in questo modo fino a trenta, quarant’anni fa.
Nel libro si parla anche di alcuni mestieri scomparsi legati all’uso del legno di arancio.
Un tempo da questi alberi si facevano piccoli mobili, come comodini e scrittoi: germogli, tronchi, frutta, dell’arancio non si butta via nulla. È entrato a far parte anche del low cost moderno, dai rametti si ricavano degli spiedini, con l’arancia vuota si creano dei bicchieri. Per non parlare dei fiori e dei frutti quando sono ancora piccoli come un’oliva, che fatti seccare vengono impiegati nella cosmetica.
Ci manca un esempio tratto dal grande schermo…
Uno su tutti. Gli appassionati di cinema si sono accorti della presenza di velocissimi frame nella pellicola de “Il Padrino”: ogni volta che compare, l’arancia annuncia un omicidio.
Altro che libro di ricette, questa è una monografia. Ma le pagine che parlano di cucina?
Di quelle mi sono occupato in prima persona, intervistando diciotto produttori di arance: sono contadini, contadine e casalinghe, gli incontri sono avvenuti nel segreto delle loro case. Ho voluto uno spaccato parallelo: la gente “normale”, la cucina d’autore, gli anonimi cuochi veneziani e angioini. Questo libro arriva dopo altri due lavori monografici, uno sul tonno e uno sul fungo porcino, mi piace affrontare le cose una per volta.
Però oggi si vendono tanto i ricettari, le summae trasversali, dove c’è di tutto un po’. Pensi che “Arancia” piacerà al pubblico?
Piacerà ai lettori meno superficiali, quelli che non sono interessati soltanto alle ricette. Io non ho scritto un ricettario, ma un libro di cucina.
Qual è la differenza?
I libri di cucina dipendono dalla campagna, un libro sulle verdure selvatiche mangerecce, ad esempio, può essere definito tale, perché la cucina è diretta conseguenza dell’agricoltura.
Il risultato della competizione di Parigi non ti dà torto: se tu hai la medaglia d’argento, al primo posto c’è il Giappone, con un libro monografico sulla salsa teriyaki.
Forse sì, ma io non ho scritto questo libro per partecipare al concorso, è stata un’iniziativa dell’editore (Edizioni Estemporanee). Ma quando uno si scopre ignorante è sempre felice, e lì io lo ero di fronte a tanta editoria internazionale: era come stare dentro a una grande libreria, con 600 libri da 178 Paesi, ne ho visionati un centinaio anche se non molti di questi testi affrontavano un argomento in maniera univoca come nel mio caso. Però è stata una grande occasione per me, ho preso diversi spunti, dalla cucina lituana, peruviana, sudafricana, belga…
“Arancia” ha un preambolo con la firma di Franco Battiato, testimonianze di maestri dolciari, critici musicali, e una sfilza di ricette che spaziano dalla tradizione all’innovazione. Tu a quale sei più legato?
Per i piatti a base di arancia vi lascio al libro. Quello che più mi rappresenta è invece una pietanza poverissima proveniente dall’isola di Salina, dove veniva cucinata fino a trent’anni fa: la zuppa di sassi di mare. Ai sassi sono attaccate le alghe, si mettono in pentola con acqua di rubinetto, un pezzetto di cipolla e un po’ di pomodoro. Nel brodo rilasciano il sapore del mare.
Dove possiamo venire ad assaggiarla?
Una risposta adesso non ce l’ho: da sei anni non mi appoggio più a nessun ristorante. Mi sono spostato dall’America al Giappone, e voglio continuare a farlo. La gastronomia non è solo ristorazione. Mi sembra che ci siamo adagiati sul consumismo e abbiamo dimenticato cose come il fatto che con della farina e un po’ di buona volontà in mezz’ora ci facciamo un chilo di pasta fresca.
E l’idea di spostarti definitivamente all’estero?
Ogni tanto il dubbio mi viene. Dal punto di vista umano l’Italia è un Paese sempre più triste, abbiamo paura dell’altro anche se andiamo al bar, per me sta diventando insopportabile. Quando vado in Francia, in Spagna, in Portogallo, vedo gente che ha ancora voglia di sorridere, nonostante i problemi e le ansie.