Tra le carte in mostra a Ferrara per le celebrazioni del regista, le missive del filosofo alessandrino dove si parla della lavorazione del celebre film poi affidato ad Annaud per fare incassi al botteghino: "Nessun risentimento ma molta gratitudine per l’entusiasmo con cui ti eri buttato sul mio libro. La cosa non andò in porto per problemi coi produttori"
“Il nome della rosa” stava per essere tradotto sul grande schermo da Michelangelo Antonioni. Il celebre romanzo di Umberto Eco è stato materia di sceneggiatura nelle mani del grande regista ferrarese. La storia racconta che l’omonimo film venne firmato nel 1986 da Jean-Jacques Annaud, ma in una lettera dattiloscritta a firma del filosofo alessandrino si evince un antefatto sconosciuto ai più.
Il 27 febbraio 1984 Umberto Eco scrisse a Michelangelo Antonioni per chiarire alcuni malintesi sorti tra i due maestri e che nella lettera rimangono celati. Il mittente si premura di mettere “subito in chiaro” che “io non sento risentimento ma al contrario molta gratitudine per l’entusiasmo con cui ti eri buttato sul mio libro. So benissimo che se non ce l’hai fatta non è stato per colpa tua e sarei stato felice se la cosa fosse andata in porto”.
Un dettaglio quasi inedito, se è vero che nemmeno gli agiografi del regista come Paolo Micalizzi, critico cinematografico ferrarese e memoria vivente della filmografia di Antonioni, ricorda un particolare del genere. Eppure nell’ambiente a suo tempo qualcosa doveva essere trapelato, visto che l’autore de Il pendolo di Foucault confida di provare “un po’ di imbarazzo ogni volta che i giornalisti mi fanno domande sul film che sta facendo Annaud e mi chiedono se era vero che si era parlato anche di un progetto con te. Io dico sempre di sì, perché la cosa mi onora e poi non so mai spiegare perché la cosa non si è realizzata, nel timore di dire cose sbagliate sul tuo rapporto col produttore di allora”.
Proprio il rapporto con i finanziatori, dai quali Antonioni era “temutissimo”, come confidano in ambienti vicini alla famiglia, potrebbe aver fatto naufragare il progetto: il cineasta estense era troppo rischioso per affidargli un film che doveva riscuotere anche il successo dei botteghini.
Questa notizia è una delle ‘perle’ che emergono dall’infinito materiale selezionato da Ferrara Arte per la mostra “Lo sguardo di Michelangelo. Antonioni e le arti” che inaugurerà il 10 marzo 2013 a Palazzo dei Diamanti, per rimanerci fino al 9 giugno 2013.
La mostra è curata da Dominique Païni – già direttore della Cinémathèque Française –, organizzata dalla Fondazione Ferrara Arte e dalle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara-Museo Michelangelo Antonioni, in collaborazione con la Fondazione Cineteca di Bologna e ripercorre la parabola creativa di Antonioni accostando i suoi lavori a opere di grandi artisti, come De Chirico, Morandi, Rothko, Pollock, Burri e Vedova, e offrendo un inedito e suggestivo dialogo tra film e pittura, letteratura e fotografia.
Una mostra che non è fatta solo di cinema, ma anche di ricordi, fotografie, scritti, corrispondenze. E recensioni. Tante recensioni. Da Alberto Moravia a Roland Barthes, da Tarkovskij a Kubrick, da Visconti a Fellini. Tutte osannanti tranne una. Quella di Franco Fortini, che forse mal sopportava epiteti quali “lo Zola in porcellana” che Antonioni si guadagnò a Venezia con “I vinti”. E Fortini, che non risparmiava nemmeno Pasolini (“Non imiterò che me stesso, Pasolini. | Più morta di un inno sacro | la sublime lingua borghese è la mia lingua. | Non conoscerò che me stesso. La mia prigione | vede più della tua libertà”), lascia poche righe per stroncare a modo suo “L’eclisse”: “film di grande ricchezza e di imperfetta sceneggiatura”.