Sono trascorsi quasi dieci anni. Era la fine del 2003. Vivevo da qualche mese a Montevideo, in Uruguay, da dove seguivo il Sudamerica per Il Sole 24 Ore e per altri media italiani. Presi un aereo per Caracas: la terra di Chavez, la mia prima volta. Non sono mai stato un guevarista, né un ribelle. Credo nel libero mercato, ma sottoposto a regole. Credo nella giustizia sociale, ma al tempo stesso nel fatto che una Borsa e una finanza che funzionino regolarmente possano aiutare lo sviluppo di un Paese. Credo che la nazionalizzazione sia davvero l’ultimo strumento a disposizione di uno Stato per risolvere una vertenza con un’impresa privata. Insomma, diffidavo molto del Presidente venezuelano.
Sulla strada dall’aeroporto verso il centro di Caracas, una successione di «barrios», le bidonville venezuelane, abbarbicate su ripide alture: quasi spudorate, presenti da ogni parte, ancora di più che in altri contesti latinoamericani. Rimasi in città una settimana. Una delle inchieste che dovevo realizzare riguardava la comunità degli italiani del Venezuela, tra le più ricche del Paese, e il loro difficile rapporto con Chavez. Erano mesi di tensione, l’estate del 2004 si sarebbe tenuto un referendum per revocare il mandato al Presidente, poi sfociato in un insuccesso (il 59% degli elettori votò a favore di Chavez). Arrivati principalmente negli anni Cinquanta, in Venezuela gli italiani avevano lavorato sodo e fatto fortuna. Ma tra di loro (non in tutti, ma in tanti) trovai molta insofferenza nei confronti dei più poveri, corredata da un razzismo più o meno velato (sui neri o mulatti che in Venezuela sono quasi sempre poveri). Nei discorsi, immancabile, affiorò addirittura un po’ di nostalgia del ventennio fascista…Al di là della comunità degli italiani, comunque, mi capitò una sera di andare a una festa organizzata alla sede del giornale El Universal, quotidiano antichavista, piena di donne rifatte, che parlavano con disprezzo dei sostenitori di Chavez. Sputavano sentenze imbarazzanti, senza alcuna vergogna, su quei «burini» vocianti.
Un giorno incontrai uno degli imprenditori più ricchi del Venezuela, Juan Francisco Clerico, anche lui con passaporto italiano. Finalmente mi fece qualche discorso ragionevole. Una domenica dal cielo plumbeo mi portò in giro per la città: macchinona con autista, accompagnati a breve distanza da 4×4 con guardie del corpo, muniti di mitragliette. Ci tenne a mostrarmi anche il centro e poi l’ovest povero di Caracas. Si fermò davanti a un barrio e mi disse che «anche noi, gli italiani, e tutti i cittadini più privilegiati del Venezuela abbiamo sbagliato. Non abbiamo voluto per anni vedere queste bidonville. Ci siamo girati dall’altra parte, concentrati solo a consolidare il nostro benessere personale».
Chavez, invece, è stato il primo a occuparsi dei poveri (il 49% della popolazione nel 1999, quando arrivò al potere, e il 27% oggi, senza contare che nel frattempo la mortalità infantile si è dimezzata). Ha sicuramente commesso tanti errori di gestione economica: la produzione petrolifera è calata fortemente perché non si è investito nei giacimenti. I capitali stranieri sono stati messi in fuga dalle nazionalizzazioni. Anche l’industria manifatturiera ha perso peso e il Venezuela è diventato sempre più dipendente (troppo) dalle importazioni. Ma almeno Chavez ha guardato in faccia il problema principale del Paese, quei «barrios». Oggi il 43% del bilancio dello Stato è consacrato alle politiche sociali. Bene o male, li ha aiutati. Ha cercato di superare una ghettizzazione colpevole.
In quel primo viaggio, ritornai all’aeroporto per la stessa strada, costellata di bidonville. Perfino dalla scaletta dell’aereo si scorgevano i barrios, sulle colline adiacenti, a poche centinaia di metri. Ma possibile che i ricchi del paese non li avessero mai visti in precedenza? Che non si fossero mai chiesti per anni e anni, andando a prendere un aereo per fare shopping a Miami o per studiare in un’università americana, come vivesse quella popolazione lasciata ai margini del miracolo economico del «Venezuela saudita»?
Perché si scandalizzavano così tanto del fenomeno Chavez? Perché non si erano svegliati prima? Io che non sono guevarista, né un ribelle e che credo nel libero mercato ripensai d’un botto a tutti gli stupidi discorsi ascoltati nei giorni precedenti. A quell’indifferenza ostentata. Al disprezzo per la miseria. E pensai che quel pazzo di Chavez i ricchi del Venezuela se l’erano meritato. Non uno, ma due, tre, quattro, centomila di Chavez dovevano rimanere per un po’ sul loro gobbone.