La direzione Pd è stata trasmessa in streaming, per mostrarsi gggiovani, ma le parole erano ancora quelle da “grigi compagni del Pci” (cantava Gaber). Burocratese, lessico bolso, carisma ipotetico. La zuppa del Bersani. Un nulla pensoso, saturo di quasi-sapienza e pseudo-autocritica. Gli happening della “sinistra” italiana, ancor più dopo una sconfitta (cioè sempre), hanno il gusto agrodolce dell’autoanalisi. Dell’autoflagellazione. Ha riverberato il cliché anche Zoro, nella prima puntata di Gazebo: si piange, ci si interroga, ma alla fine ci si autoassolve. Il sottotesto è sempre: “Sì, abbiamo non-vinto, ma solo perché il popolo non ha capito”. Interventi a grappolo e la sensazione eterna che il politburo continui a vivere su Marte. “Conosciamo bene il paese”, ripeteva la Finocchiaro (forse, ma quel paese non è l’Italia). I migliori? Emiliano, Civati. Figure di nicchia, diverse e dunque eretiche. Se la comunicazione è un’autostrada, il Pd la affronta guidando con pigra baldanza una Duna smarmittata (color cacchina).
Spinge il pedale, accelerando per restare fermo. In Rete rimbalza ancora lo spot elettorale (sic) in cui una ventina di martiri, a metà tra la danza maori e un waka waka per artritici, scandisce il mantra: “Lo smacchiamo, lo smacchiamo!”. La grinta è quella dei panda che dormono, la sfiga che ha portato paragonabile a un esercito di Cassandra efferate. A fine filmato parte We Will Rock You (poveri Queen). Poi, in chiusura, le parole guerreggianti di Bersani dal pulpito. La trovata – by Youdem e Chiara Geloni, che stanno al Pd come Lippi all’Inter – non era piaciuta a Nanni Moretti, che aveva comunque presenziato alla “festa” finale. Dove? In un teatro. La piazza era roba da populisti: il centrosinistra – invece – si riuniva a teatro, ostaggio di una comunicazione autoreferenziale che ne conclama il distacco (“scollamento”, direbbe la Moretti) con la realtà. Anche due giorni fa il linguaggio era polveroso, stantio. Un grammofono rigato nell’era dell’iPod: un calesse mentre gli altri sognano astronavi. Enrico Letta elettrizzava la folla col brio di un fermo immagine di Kiarostami. Bersani – lo smacchiatore ipotetico – agonizzava tra “Sentiero stretto”, “diradare la nebbia”, e “sparare a palle incatenate” (“palle incatenate” non si sentiva dai tempi della conferenza di Yalta). Fino alla catarsi finale in latino: “De hoc satis” (“di questo basta”).
L’anzitempo antico Orfini arringava i fedelissimi (se stesso) con voce sottratta a Sabina Guzzanti mentre imita D’Alema. Quel D’Alema che, con supponente dovizia, spiegava la crisi della sinistra (cioè si raccontava). Per poi citare Gramsci, che è un po’ come se la Binetti citasse Moana: “La paura dei compromessi è una manifestazione di subalternità culturale” (e il desiderio di un altro inciucio è una manifestazione di perversioni estreme). Ancora la Moretti, qualche sera fa a Porta a Porta, ripeteva: “Mi sento molto vicina ai giovani del Movimento 5 Stelle”. Forse lei sì, ma loro mica tanto. La frattura tra pidini e grillini è netta. Il Pd è apparato, il M5S istinto. La distinzione non è qualitativa, ma oggettiva. Il M5S è un alieno anche nel linguaggio. Una supernova a tre facce. Grillo parla alla pancia e al cuore, un colpo a Gargamella e uno ai sogni, qua e là inciampando in immagini prebelliche (“I capogruppi sono titolati a parlare”: roba che neanche Breznev).
Poi ci sono i grillini che imperversano in Rete, incazzosi e troppo spesso sprovvisti di (auto)ironia. E infine gli eletti, deputati e senatori, consiglieri e assessori. Non somigliano né a Grillo-Casaleggio, né alla frangia verbalmente estremista: teneri e candidi, passionali e ingenui (pure troppo: a Otto e Mezzo, il neodeputato Bonafede è parso assai vago).
Più chierichetti che pasdaran. È la normalità al potere, il cittadino über alles , il parla come mangi (e a volte mangiano vegano). “Mi chiamo Pino, faccio il sommelier e vorrei occuparmi di Agricoltura”. Una semplificazione forse caricaturale (infatti li hanno massacrati, da Crozza a Twitter), che però sottolinea una cesura netta anche nella comunicazione. Il centrosinistra è un Commodore 64 che nessuno vuol potenziare, il M5S un iPad evoluto che non tutti sanno usare (il fascismo buono, i microchip: ma de che?). Mondi, facce e lingue diverse. Niente alleanze. Niente fiducia. E nemmeno un esperanto all’orizzonte.
Il Fatto Quotidiano, 8 marzo 2013