Pene da 3 anni e mezzo a 6 anni per gli impiegati accusati di aver intascato paghe da capogiro per 4 anni attraverso cosiddetti "progetti obiettivo". Il tribunale ha deciso anche un risarcimento di 5 milioni a favore dell'amministrazione comunale. Per la voragine dei conti sono a processo in un altro filone anche alcuni assessori
Trentaquattro condanne da 3 anni e mezzo a 6 anni e un risarcimento provvisorio di 5 milioni di euro nei confronti del Comune di Taranto. È questa la sentenza emessa dal tribunale di Taranto nei confronti dei 34 dipendenti del comune ionico finiti sotto processo per aver intascato in quattro anni dei veri e propri “stipendi d’oro”. Buste paga da decine di migliaia di euro, ogni mese per quattro anni. Stipendi da capogiro ottenuti grazie ai cosiddetti “progetti obiettivo” durante i quali, secondo la tesi del sostituto procuratore della Repubblica Ida Perrone, i dipendenti svolgevano in realtà le mansioni ordinarie per le quali percepivano già il normale salario dal comune di Taranto.
Il collegio, formato dai giudici Michele Petrangelo, Vilma Gilli e Alessandra Romano, ha inflitto la pena maggiore, 6 anni di carcere, all’ex responsabile del settore risorse finanziarie Luigi Lubelli. Per gli altri imputati le pene variano da un minimo di 3 anni e 6 mesi fino a un massimo di 5 anni di reclusione. Il tribunale, inoltre, ha disposto che il risarcimento nei confronti del comune di Taranto sia stabilito in un procedimento separato e ha fissato in oltre 5 milioni di euro la provvisionale immediatamente esecutiva che gli imputati dovranno versare nelle casse del comune. Una somma garantita dalla confisca dei beni mobili e immobili in sequestro per gli imputati.
In totale il comune di Taranto ha chiesto un maxi risarcimento, tramite l’avvocato Pasquale Annicchiarico, di 50 milioni di euro. Durante le indagini condotte dalla Guardia di finanza di Taranto emerse che tra il 2001 e il 2005 un vero e proprio fiume di denaro pubblico era finito nei conti correnti dei dipendenti attraverso il lavoro di una associazione a delinquere al cui vertice c’era il dirigente Lubelli, che “disponendo in maniera esclusiva dei cordoni della borsa – si legge nelle carte dell’inchiesta – ha potuto dispensare a pioggia i pubblici denari in favore dei suoi più stretti collaboratori, complici omertosi in più di una illecita operazione: milioni e milioni di euro che si chiamano stipendi d’oro e commissioni comunali, buchi che, negli anni hanno contribuito a determinare la voragine del più grande dissesto d’Italia”.
Un “complice” secondo l’avvocato Annicchiarico “delle operazioni chiave volute” dall’allora sindaco di Taranto Rossana Di Bello, a capo di un’amministrazione di centrodestra che ha portato l’amministrazione tarantina al più grande dissesto della storia della Repubblica italiana. Il sostituto procuratore Perrone è riuscita a evitare anche la mannaia della prescrizione chiedendo di trasformare l’accusa iniziale di truffa in peculato. Nel processo, tuttavia, la classe politica non è stata giudicata. La posizione di molti esponenti della giunta guidata da Rossana Di Bello, pende al momento, dinanzi alla Corte d’appello di Lecce in un processo che ha assunto il nome di “bilanci falsi”. Un giudizio complesso: dopo la sentenza di condanna in primo grado e l’assoluzione di tutti gli imputati in appello, la Cassazione ha annullato con rinvio la decisione di secondo grado e ordinato un nuovo processo d’appello per fare luce sulla gestione del casse del Comune.